Automobile difettosa: quando è possibile chiederne la sostituzione?

La sostituzione di un’autovettura viziata può avvenire solo nel caso in cui l’entità del danno sia tale da rendere antieconomica la riparazione del veicolo.

Il consumatore che acquisti un qualunque bene di consumo, intendendosi con tale termine qualsiasi cosa mobile venduta da qualsivoglia persona fisica o giuridica pubblica o privata nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, il quale si riveli essere viziato o comunque difforme dal bene oggetto del contratto, beneficia automaticamente di una serie di garanzie previste dalla legge, finalizzate esclusivamente a tutelare la posizione del consumatore deluso.

In particolare, l’art. 130 del D. Lgs. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo) prevede che “il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai commi 7, 8 e 9”.

Dall’analisi del dettato normativo emerge con chiarezza come il consumatore abbia a propria disposizione vari rimedi, tutti idonei a porre nel nulla gli effetti di una compravendita svantaggiosa: in primo luogo, il compratore può chiedere la riparazione del bene a spese del venditore; in secondo luogo, è possibile che il bene viziato venga integralmente sostituito con una cosa di identica qualità e tipo, ma priva di vizi; in terzo luogo, il compratore può chiedere che il prezzo della compravendita venga proporzionalmente ridotto in base all’incidenza del vizio riscontrato e, nei casi in cui l’acquirente non abbia alcun interesse a tenere il bene viziato, chiedere la risoluzione del contratto di compravendita, restituendo la cosa viziata e obbligando il venditore alla ripetizione del prezzo pagato.

Esaminando più nel dettaglio l’ipotesi della sostituzione del bene viziato, appare opportuno ricordare che si tratta di un rimedio esperibile solo in presenza di determinati presupposti fattuali.

Infatti, il Codice del Consumo prevede espressamente che la sostituzione possa essere richiesta solo nel caso in cui non sia eccessivamente onerosa per il venditore.

La valutazione di eccessiva onerosità imposta dal Legislatore deve essere operata tenendo conto di tre distinti elementi, delineati dal Codice del Consumo stesso: a) il valore che il bene avrebbe se non vi fosse difetto di conformità; b) l’entità del difetto di conformità; c) l’eventualità che il criterio alternativo possa essere esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore.

Ciò significa, in altri termini, che il rimedio della sostituzione deve ritenersi escluso in tutti i casi in cui le spese che si renderebbero necessarie per soddisfare la richiesta in tal senso formulata dal consumatore risultassero irragionevoli, e cioè sproporzionatamente elevate, se poste a confronto con i costi implicati dal rimedio della riparazione.

Tale principio è stato di recente espresso anche dalla Corte d’Appello di Napoli, che ha rigettato la richiesta di sostituzione di un’autovettura che presentava un difetto congenito al cambio sulla base della sproporzione tra il costo delle riparazioni necessarie (pari ad euro 4.148,00), rispetto al valore dell’automobile, commisurato al prezzo di acquisto (pari ad euro 31.450,00).

In tale ipotesi, al compratore risulterebbe quindi precluso il rimedio della sostituzione del bene viziato.

Immobile difforme dalla concessione edilizia: quale sorte per il preliminare e il contratto di compravendita?

Come noto, nella generalità degli affari immobiliari, la parte venditrice e la parte acquirente, prima di addivenire alla stipula del contratto di compravendita avanti al notaio, cristallizzano la propria volontà negoziale nel c.d. contratto preliminare: a differenza della vendita vera e propria, che provoca come effetto istantaneo il trasferimento del diritto di proprietà sull’immobile (e per questo viene classificata come contratto c.d. traslativo), il preliminare di vendita obbliga le parti che lo concludono a stipulare, in un momento successivo, il contratto di compravendita definitivo (rientrando quindi nella categoria dei contratti ad efficacia c.d. obbligatoria).
Attraverso il preliminare, in altre parole, l’acquirente e il venditore assumono l’impegno reciproco di concludere l’affare, assicurando il trasferimento del diritto di proprietà.
Nel corso delle trattative, può accadere che le parti scoprano l’esistenza di alcune irregolarità urbanistiche riferibili all’immobile oggetto della contrattazione, tali da renderlo sostanzialmente difforme dal relativo provvedimento amministrativo di concessione edilizia.
La questione riveste non poco peso, atteso che l’art. 40 della legge n. 47/1985 (“Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali”) prevede espressamente la sanzione della nullità per i contratti che abbiano ad oggetto immobili privi della necessaria concessione edificatoria.
Sul punto, è importante rilevare, in prima battuta, che l’art. 40 della legge n. 47/1985 deve trovare applicazione solo con riferimento ai contratti con effetti traslativi (come la compravendita), ma non nei confronti dei contratti con efficacia obbligatoria (tra i quali è incluso anche il contratto preliminare).
Pertanto, il contratto preliminare avente ad oggetto un immobile sprovvisto di concessione edilizia o da quest’ultima difforme continuerebbe a spiegare i propri effetti, non potendosi considerare nullo ai sensi dell’esaminata normativa.
Tanto premesso, appare legittimo interrogarsi su quale sorte tocchi al contratto di compravendita avente ad oggetto il medesimo immobile: se, come sopra esposto, la nullità di cui all’art. 40 della legge 47/1985 colpisce solo i contratti ad effetti traslativi, tra i quali rientra la compravendita, si giungerebbe al paradosso di “salvare” il preliminare per poi ritenere nullo il contratto definitivo?
In risposta a tale quesito, come sottolineato in più occasioni dalla Corte di Cassazione, è sufficiente ricordare che la predetta nullità deve essere qualificata come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile.
Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.
In altri termini, la nullità prevista dalla legge 47/1985 andrà a sanzionare solo gli atti di compravendita che, al proprio interno, non facciano menzione degli estremi del provvedimento di concessione urbanistica, non rilevando, ai fini della validità dell’atto, che l’immobile compravenduto presenti difformità urbanistiche rispetto alla relativa concessione edificatoria.

L’immobile acquistato solo in parte con denaro altrui deve considerarsi di provenienza donativa?

L’art. 769 del codice civile definisce la donazione come “il contratto con il quale una parte, per puro spirito di liberalità, arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.

Caratteristica fondamentale del contratto di donazione è dunque la presenza del cosiddetto animus donandi, ovvero la volontà e consapevolezza del donante di arricchire un altro soggetto per mezzo di un’elargizione spontanea, con lo scopo di soddisfare un interesse di natura non patrimoniale esistente in capo al disponente stesso.

Per contro, nel caso delle cosiddette donazioni indirette, la medesima finalità viene perseguita attraverso vari “stratagemmi” negoziali, che non implicano l’utilizzo del vero e proprio contratto di donazione di cui all’art. 769 c.c.

La distinzione tra le due tipologie di donazione è cruciale, atteso che solo in riferimento alla donazione diretta trovano applicazione alcune specifiche norme del codice civile (ad esempio, solo le donazioni dirette devono rivestire la forma dell’atto pubblico a pena di nullità).

Fermo quanto sopra esposto, il conferimento di denaro da parte di un soggetto per l’acquisto di un immobile da parte di un altro, tuttavia non sufficiente a sostenere l’intero costo dell’operazione di compravendita, può essere considerato una donazione? E, in caso di risposta affermativa, dovrebbe essere qualificata come donazione diretta o indiretta?

A ben vedere, infatti, la dazione di una somma di denaro inferiore al prezzo dell’immobile non sarebbe idonea a provocare l’arricchimento voluto dal donante, in quanto non sufficiente a permettere l’ingresso dell’immobile nel patrimonio del donatario.

Come tale, non sarebbe dunque idonea ad essere qualificata come donazione indiretta dell’immobile, data l’impossibilità, per il donatario, di acquisire l’immobile al proprio patrimonio con le sole somme corrisposte dal donante.

Tuttavia, la giurisprudenza prevalente accoglie una diversa soluzione, atta a ricondurre la dazione di una somma di denaro per l’acquisto di un immobile nell’alveo delle donazioni indirette.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10759/2019, ha infatti riconosciuto la possibilità che la liberalità realizzata con la corresponsione delle somme necessarie a pagare parte del prezzo di un immobile possa essere considerata tale laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme (ovvero, l’acquisto dell’immobile).

In questo specifico caso, l’oggetto della liberalità, che si qualificherà dunque come indiretta, deve essere identificato non nel denaro corrisposto dal disponente, ma nella percentuale di proprietà del bene acquistato corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante.

Licenziato a causa del sinistro stradale? Il guidatore deve corrispondere tutte le retribuzione perdute

Le conseguenze negative di un incidente stradale possono riverberarsi su molteplici aspetti della vita quotidiana dei soggetti danneggiati.

Infatti, è ben possibile che la vittima di un sinistro causato da un’auto in transito, a causa della gravità delle lesioni riportate, subisca un licenziamento legittimo per superamento del periodo di comporto, intendendosi con tale termine quell’arco temporale durante il quale il dipendente in malattia ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro.

Infatti, superato il periodo di comporto, anche per causa non imputabile al lavoratore, il datore di lavoro potrebbe legittimamente licenziare il proprio dipendente senza incorrere in alcun tipo di conseguenza negativa.

Appare dunque ragionevole chiedersi a quale forma di tutela possa avere accesso il lavoratore licenziato a causa del protrarsi dell’infermità generata dall’incidente stradale, considerato che, nell’ipotesi in cui il sinistro non si fosse verificato, avrebbe senz’altro potuto conservare il proprio posto di lavoro.

Al medesimo interrogativo ha fornito esaustiva risposta la Corte di Cassazione, che, con la recente sentenza n. 28071/20, ha chiaramente identificato la misura del risarcimento spettante alla vittima del sinistro stradale nel caso in cui la perdita dei redditi da lavoro sia conseguenza immediata e diretta dell’incidente.

In particolare, laddove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danneggiante è tenuto a corrispondere una somma pari a tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che il danneggiato avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale.

In tal caso, nell’interpretazione fornita dalla Cassazione, il risarcimento non può essere parametrato alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate; deve bensì avere ad oggetto la totalità delle somme che sarebbero state corrisposte al lavoratore a titolo retributivo e contributivo.

L’unico limite alla responsabilità del danneggiante è costituito dall’ipotesi in cui questi riesca a dimostrare che il danneggiato abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che, pur potendo farlo, non lo abbia fatto per sua colpa. Al verificarsi di tale ultima circostanza, il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione.

Figli maggiorenni: quando cessa l’obbligo di mantenimento dei genitori?

La nascita di un figlio comporta innumerevoli conseguenze, sia sul piano personale e sociale, sia sul piano giuridico.

La nascita di un bimbo è infatti elemento necessario e sufficiente per vincolare i genitori al rispetto di numerosi obblighi, imposti dalla legge a tutela e protezione del fanciullo.

Sul punto, una delle norme maggiormente rilevanti è senz’altro costituita dall’art. 316 bis c.c, il quale prevede che “i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”.

Ciò significa, in buona sostanza, che i genitori devono cooperare tra loro al fine di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.

Con specifico riferimento all’obbligo di mantenimento, accade spesso che, a seguito della separazione dei genitori (indipendentemente dal fatto che siano sposati o meno), il Tribunale imponga al genitore non convivente il pagamento di una somma a titolo di concorso nel mantenimento del figlio, da corrispondersi sino al momento in cui questi diventerà economicamente autosufficiente.

Infatti, l’obbligo di mantenimento gravante in capo al genitore non cessa con il compimento della maggiore età del figlio, ma si protrae fino al momento in cui quest’ultimo fa il proprio ingresso effettivo nel mondo del lavoro, con la percezione di una retribuzione (sia pure modesta).

L’obbligo del mantenimento dei genitori consiste infatti nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente (Corte di Cassazione, ordinanza n. 19696/19).

Tuttavia, il mantenimento al figlio è garantito anche nel caso in cui, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, questi, pur non riuscendo nell’intento, si adoperi effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni (Corte di Cassazione, ordinanza n. 29779/20).

Pertanto, in conclusione, l’unica ipotesi in cui la legge consente al genitore di cessare il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente è quella in cui questi non svolga alcuna attività lavorativa tale da renderlo indipendente anche parzialmente, e tantomeno risulti che egli abbia, in tutti i modi possibili e ragionevoli, cercato soluzioni lavorative adeguate.

In questo caso, infatti, non appare né giusto né ragionevole trasferire in capo al genitore le conseguenze negative della condotta del figlio che non intenda consapevolmente progredire né dal punto di vista economico né dal punto di vista sociale.

Al verificarsi di tale situazione, il genitore che intendesse rivedere i termini del rapporto economico con i figli, potrà quindi rivolgersi al Tribunale, al fine di vedersi sollevato dall’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile di mantenimento.

I condomini devono partecipare alle spese di abbattimento e reimpianto degli alberi ornamentali, anche se di proprietà esclusiva

Con una interessante e recente pronuncia resa in tema di ripartizione degli oneri condominiali, la Corte di Cassazione ha stabilito che le spese necessarie per l’abbattimento ed il reimpianto di alberi ad altro fusto, di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, debbano essere suddivise tra tutti i condomini se gli alberi concorrono a costituire in modo indissolubile il decoro architettonico dell’edificio (ordinanza n. 22573/20).

La pronuncia della Suprema Corte ha preso le mosse da una lontana sentenza del 1994, in cui il Collegio aveva già osservato come le spese di potatura degli alberi, che pur insistono su suolo oggetto di proprietà esclusiva di un solo condomino, debbano gravare su tutti i condomini allorché si tratti di piante funzionali al decoro dell’intero edificio e la potatura stessa avvenga per soddisfare le relative esigenze di cura del decoro stesso (Corte di Cassazione, sentenza n. 3666 del 18/04/1994).

Tale sentenza evidenziava come le piante di alto fusto possano formare oggetto, ad un tempo, di proprietà esclusiva e di comunione, fornendo utilità differenziate al proprietario del suolo e ai titolari delle unità immobiliari dell’edificio condominiale, in quanto componenti essenziali dell’estetica architettonica del fabbricato.

Il fondamento della partecipazione agli oneri condominiali, ai sensi degli artt. 1123 c.c. e segg. (il quale prevede che “le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne”), non è infatti necessariamente correlato alla contitolarità del bene, bensì all’utilità che il bene stesso arreca alle singole unità immobiliari, indipendentemente dal regime di proprietà.

In conclusione, la giurisprudenza prevalente sembrerebbe non riconoscere valore dirimente alla circostanza che le piante siano di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, ritenendo che il valore estetico e ornamentale che aggiungono all’intero edificio sia tale da giustificare la ripartizione delle spese di potatura, abbattimento e reimpianto tra tutti coloro che, seppur non proprietari delle stesse, beneficino dell’abbellimento collegato all’esistenza di una lussureggiante vegetazione condominiale.

Processo civile telematico e fattura elettronica con firma scaduta: quid iuris?

Si è già parlato delle fatture elettroniche e della loro utilizzabilità nel procedimento per ingiunzione di pagamento in questo articolo: link

Come noto, nel processo civile telematico (PCT), le fatture in formato .xml ed i relativi esiti vanno imbustati e caricati sul sistema. Ebbene, può accadere (ed anzi: è probabile) che le fatture in nostro possesso siano state firmate elettronicamente.

Facciamo un passo indietro: cos’è l’xml? E il .p7m? Inoltre, la firma elettronica è obbligatoria sulle fatture elettroniche?

Andiamo con ordine: l’xml, eXtensible Markup Language, è l’unico formato file conforme agli standard definiti dal Sistema di Interscambio per le fatture elettroniche, mentre xml.p7m è il formato della fattura elettronica firmata digitalmente.

Per quanto riguarda l’obbligatorietà o meno di firmare le fatture occorre distinguere: per le fatture PA (cioè quelle emesse nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, peraltro obbligatorie ormai da più di un lustro) tale previsione è obbligatoria, mentre per le fatture c.d. b2b (business to business, ovverosia tra privati) è prevista come meramente facoltativa.

E cos’è la firma elettronica? Il concetto di firma elettronica è normato dal Regolamento eIDAS (Regolamento UE n. 910/2014), il quale è stato recepito all’interno del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD – Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82).

La firma apposta alle fatture elettroniche soggiace alle normali regole di validità delle firme, e per tale motivo è soggetta a scadenza.

Il problema: se abbiamo una fattura emessa nel 2019 con firma, e quest’ultima ha il certificato scaduto, come possiamo imbustarla? Il programma che gestisce il PCT infatti ci avvertirà che il certificato di firma del documento xml.p7m non è valido, e per tale motivo ci impedirà di caricarlo.

Una precisazione è d’obbligo: se la fattura ha la firma scaduta, ma quando è stata apposta era valida, il documento non è nullo. Inoltre, le fatture elettroniche vanno obbligatoriamente conservate per rispettare le previsioni normative in materia.

Tutto ciò premesso, come aggirare l’ostacolo? Come caricare nel PCT una fattura elettronica con certificato di firma scaduto? È semplice: con un software che consenta di aprire i xml.p7m (quali, a titolo di esempio, ArubaSign e FirmaCerta) sarà sufficiente salvare il file .xml “puro” senza firma e procedere al suo deposito.

Fideiussioni omnibus e normativa antitrust: le possibilità di liberazione del garante – parte 2

PARTE 2: LA SANZIONE PER LA BANCA

Come ampiamente argomentato nel precedente contributo, il contratto di fideiussione omnibus è recentemente balzato agli onori della cronaca giudiziaria perché lo schema contrattuale utilizzato uniformemente dagli istituti di credito operanti sul territorio, predisposto dall’ABI nel lontano 2002, conterrebbe tre specifiche clausole idonee a restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, in violazione della vigente disciplina antitrust (per approfondire, clicca qui).

La giurisprudenza prevalente, sia di merito che di legittimità, ha dimostrato di aver pienamente recepito il contenuto del provvedimento della Banca d’Italia dichiarando nulle le clausole anticoncorrenziali contenute nelle singole fideiussioni omnibus.

La soluzione proposta si colloca ad un livello intermedio tra due ulteriori correnti giurisprudenziali nettamente più marcate: un primo orientamento, valorizzando il disposto testuale dell’art. 2 della legge antitrust (che sancisce la nullità ad ogni effetto di qualsivoglia intesa anticoncorrenziale), invocava la nullità dell’intero contratto di fideiussione; un secondo orientamento, più favorevole per la posizione del soggetto garantito, non riconoscendo alla disciplina dettata dall’art. 2 natura di norma imperativa, attribuiva al garante un rimedio esclusivamente risarcitorio, con piena salvezza del contratto sottoscritto in violazione della normativa antitrust.

L’ipotesi della nullità integrale del contratto di fideiussione omnibus non è stata accolta con favore dalla maggioranza degli operatori del diritto, in quanto “derogatoria” alla disciplina generale dall’art. 1419 c.c..

L’estensione all’intero contratto della nullità delle singole clausole, secondo la previsione dell’art. 1419 c.c., trattandosi di una deroga al principio generale della conservazione del contratto, ha infatti carattere eccezionale, e può essere dichiarata dal giudice solo se risulti che il negozio non sarebbe stato concluso senza quella parte del suo contenuto colpita dalla nullità. In altri termini, ciò può avvenire solo se il contenuto dispositivo del negozio, privo della parte nulla, risulti inidoneo a realizzare le finalità cui la sua conclusione era preordinata.

Allo stesso modo, l’accesso al solo rimedio risarcitorio, è stato considerato inidoneo a sanzionare adeguatamente la condotta degli istituti di credito che, in qualità di imprese in grado di imporre clausole contrattuali che, qualora applicate in modo uniforme, causerebbero un peggioramento della qualità complessiva dell’offerta. Ciò infatti comporterebbe una lesione intollerabile ad alcuni dei principi economici fondamentali dell’ordinamento.

Pertanto, a tutela del diritto alla libera concorrenza e del principio di ordine pubblico economico di concorrenzialità dei mercati, la giurisprudenza prevalente (e, in particolare, Cass. Civ. n. 24044/2019), in presenza di una fideiussione omnibus che ricalchi le clausole attenzionate dalla Banca d’Italia (clicca qui per approfondire), ha stabilito che queste ultime potranno essere dichiarate nulle, mentre il contratto di fideiussione rimarrà in vita epurato delle clausole invalide.

Fideiussioni omnibus e normativa antitrust: le possibilità di liberazione del garante – parte 1

PARTE 1: INQUADRAMENTO NORMATIVO

Con la legge n. 287/1990 (c.d. legge antitrust) sono state previste alcune norme a tutela della libera concorrenza e del mercato nazionale. In particolare, il Legislatore ha vietato le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale (o una parte rilevante di esso) attraverso attività consistenti, tra l’altro, nel “fissare direttamente o indirettamente prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali”.

In altre parole, l’ordinamento si è erto a difesa del diritto di iniziativa economica, impedendo la nascita e lo sviluppo di intese economiche, l’abuso di posizioni dominanti e le concentrazioni di imprese.

Ai sensi dell’art. 2 della legge antitrust, ogni intesa conclusa in violazione della disciplina ivi contenuta deve essere ritenuta nulla a tutti gli effetti, con importanti riflessi sul piano giuridico.

È agevole intuire come un’intesa anticoncorrenziale tra imprese possa assumere le forme più disparate, provocando, ad esempio, la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto di beni o servizi, la spartizione delle fonti di approvvigionamento o di parti del mercato, l’applicazione di condizioni contrattuali ed economiche notevolmente (ed ingiustamente) più svantaggiose solo per alcuni dei concorrenti, il blocco degli accessi al mercato da parte dei soggetti economicamente più deboli, la previsione di condizioni contrattuali uniformi.

Tale ultima ipotesi, in particolare, ha sancito il parziale superamento di una tipologia di contratto di garanzia molto diffuso in ambito bancario: la fideiussione omnibus.

Con il contratto di fideiussione omnibus, un soggetto terzo accetta di garantire una serie indeterminata di differenti operazioni poste in essere tra la banca e il cliente (debitore principale), prestando garanzia per tutte le obbligazioni da quest’ultimo assunte in un determinato arco di tempo o fino ad un ammontare prestabilito.

La ragione per cui tale tipologia di contratto si è posta in contrasto con la normativa antitrust è presto spiegata: i contratti conclusi tra la banca e i singoli garanti ricalcano uno schema negoziale unico, predisposto nel 2002 dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI).

In altre parole, gli istituti di credito aderenti all’ABI, operanti su tutto il territorio nazionale, utilizzano sin dal 2002 un modello contrattuale assolutamente identico, persino nella numerazione delle singole clausole applicabili.

Sulla base di quanto esposto in precedenza, è intuitivo immaginare come la fattispecie sopra descritta possa essere qualificata come fissazione diretta, da parte delle imprese operanti nel settore bancario, di condizioni contrattuali da applicare in modo uniforme nel mercato di riferimento, creando così una illecita interferenza nei meccanismi di autoregolazione del libero mercato economico. Semplificando in modo estremo, tale meccanismo provocherebbe un appiattimento tale dell’offerta contrattuale che nessun istituto di credito sarebbe spinto a proporre condizioni migliorative per la clientela, tutelato da una sostanziale mancanza di competizione.

Pertanto, considerata la sua potenziale idoneità a violare la legge n. 287/1990, lo schema di contratto di “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie” predisposto dall’ABI, veniva esaminato sia dalla Banca d’Italia che dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nel marzo del 2003.

Successivamente, con provvedimento n. 55 del 05.05.2005, la Banca d’Italia individuava tre specifiche clausole previste dal modello ABI (e, di riflesso, dalla quasi totalità degli istituti di credito operanti sul territorio nazionale) come potenzialmente lesive della concorrenza:

1) “il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo

2) “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”;

3) “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 c.c., che si intende derogato”. Tale clausola, in particolare, permette alla banca di agire nei confronti del fideiussore anche oltre il termine di sei mesi previsto dall’art. 1957 c.c., con notevole aggravio per la posizione del garante.

Nell’interpretazione fornita dalla Banca d’Italia, tali clausole non risulterebbero funzionali all’erogazione del credito, avendo quale unico scopo quello di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa.

Giunti a tale punto, è legittimo interrogarsi su quali siano stati gli effetti generati dal provvedimento della Banca d’Italia sulle fideiussioni esistenti stipulate sulla base del modello ABI 2002, e se, in qualche modo, i soggetti che hanno prestato garanzie a favore della banca possano vittoriosamente liberarsene.

Per scoprire in che termini la giurisprudenza abbia recepito il provvedimento della Banca d’Italia clicca qui.

 

Coronavirus e sospensione dei canoni locatizi: le sentenze più recenti

Con un provvedimento d’urgenza reso in data 14.04.2020, il Tribunale di Venezia ha impedito al locatore di un immobile adibito ad esercizio commerciale di escutere una fideiussione stipulata dal conduttore, titolare dell’attività di commercio al dettaglio, rilasciata al fine di garantire il pagamento dei canoni di locazione non abitativa dell’immobile.
Il conduttore ricorrente avrebbe infatti sostenuto di non essere in grado di pagare i canoni dovuti per i mesi di chiusura dell’attività al pubblico, individuando nella causa di forza maggiore costituita dalle misure restrittive imposte dal Governo la ragione del proprio inadempimento.
Il Tribunale, accogliendo la linea difensiva proposta dal conduttore moroso, di fatto impossibilitato al pagamento del dovuto per la locazione dell’immobile in cui aveva sede la propria attività in ragione della carenza di liquidità generata dalla sospensione delle attività imprenditoriali e commerciali, si è collocata come capofila di una serie di altri ulteriori provvedimenti, provenienti dai Tribunali di tutta Italia, tendenzialmente posti a tutela delle parti contrattuali danneggiate dal protrarsi del lockdown.
Sulla stessa linea, con sentenza resa in data 12.05.2020, il Tribunale di Bologna ha impedito al proprietario di un immobile adibito a centro estetico di incassare gli assegni bancari sottoscritti dalla conduttrice e titolare dell’attività a garanzia del pagamento dei canoni locatizi relativi al periodo aprile-luglio 2020.
Così decidendo, Il Tribunale ha permesso alla conduttrice di evitare le sanzioni che le sarebbero state comminate dalla legge nel probabile caso in cui gli assegni non fossero stati pagati per difetto di provvista (protesti, divieto di emettere nuovi assegni, ecc.).
Allo stesso modo, il Tribunale di Rimini, con provvedimento d’urgenza reso in data 25.05.2020, ha accolto le richieste di un albergatore il quale si ritrovava impossibilitato a pagare regolarmente il canone di locazione pattuito a fronte della chiusura forzata dell’attività da marzo a maggio 2020. Anche in questo caso, il proprietario dell’immobile ospitante l’esercizio alberghiero era determinato ad incassare alcuni assegni firmati in bianco a garanzia del pagamento dei canoni mensili.
Tuttavia, l’intervento del Tribunale ha impedito al proprietario di mettere all’incasso i predetti titoli, stabilendo che la prestazione dovuta dal conduttore, considerata la legislazione emergenziale e la situazione di fatto esistente, non si sarebbe potuta considerare normalmente esigibile.
Elemento comune ai tre casi giudiziari sopra citati è la natura d’urgenza dei provvedimenti reso dai tribunali aditi, i quali ben potrebbero subire notevoli ribaltamenti al termine del successivo giudizio a cognizione piena.
Tuttavia, emerge con chiarezza la tendenza della giurisprudenza di merito a portare a termine quanto solo preventivato dal Governo in tema di locazione non abitativa, ma mai effettivamente realizzato: infatti, l’art. 65 del D.L. Cura Italia non ha sospeso il pagamento dei canoni di locazione, limitandosi a prevedere un credito d’imposta pari al 60% del canone per i conduttori la cui attività è stata chiusa o limitata dalla legislazione emergenziale Covid-19. Non resta dunque che attendere l’esito dei giudizi instaurati successivamente alla pronuncia dei sopra citati provvedimenti, onde verificare l’effettivo orientamento dei tribunali di merito.

Il Protocollo condiviso: le risposte agli aspetti privacy problematici

Dopo il periodo trascorso in lockdown la “Fase 2” è iniziata ed alle imprese che riprendono l’attività spetta interpretare le normative e i documenti emanati in questo periodo d’emergenza per essere compliant e gestire al meglio la ripresa nel rispetto della salute e sicurezza del luogo di lavoro.

Un documento importante nella “Fase 2” è il Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del COVID-19 redatto in condivisione dalle parti sociali e contenente una serie di prescrizioni per il contenimento della diffusione del virus nello svolgimento – sicuro – dell’attività produttiva.

Il 24 Aprile è stata diffusa la versione aggiornata del suddetto protocollo (la prima versione è del 14 marzo), la cui applicazione su base nazionale è rinnovata dal D.P.C.M. del 26 aprile 2020. Il protocollo è recepito anche nell’Ordinanza Regione Veneto n. 44 del 3 maggio 2020, che ne inserisce il testo all’Allegato 2.

Principi generali

Il protocollo definisce il Covid-19 come rischio biologico generico: il documento pertanto si rivolge a tutte le aziende, in quanto possibilmente soggette a tale rischio, sia per la gestione della sicurezza dei lavoratori negli ambienti di lavoro, sia per l’adozione di misure di contenimento della diffusione nei confronti di chiunque entri nei luoghi di lavoro: clienti, fornitori, dipendenti dei fornitori e simili.

È bene evidenziare che, nella modifica adottata il 24 aprile, la mancata attuazione del protocollo, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Oltre alle prescrizioni organizzative (quali la sanificazione dei locali, ecc.), il rispetto del protocollo può comportare una serie di operazioni di trattamento di dati personali cui è bene porre attenzione per procedere in modo conforme alle normative vigenti.

Il Garante privacy è intervenuto in data 4 maggio con una serie di faq (https://www.garanteprivacy.it/temi/coronavirus/faq) volte a fare un po’ di chiarezza sui principali snodi problematici cui le imprese si sono trovate a fare i conti nell’attuazione del protocollo.

Modalità di ingresso in azienda (di tutti i soggetti) – Il datore di lavoro può rilevare la temperatura corporea del personale dipendente o di utenti, fornitori, visitatori e clienti all’ingresso della propria sede?

Innanzitutto, per rispettare la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, è bene premettere che la misurazione della temperatura all’ingresso non ha carattere obbligatorio. È tuttavia vero che il Datore di Lavoro ha l’onere di garantire il rispetto delle misure a tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro e, dal Par. 2 del protocollo, di impedire l’accesso ai soggetti con temperatura superiore ai 37,5°: per cui lo stesso potrebbe ritenere che la rilevazione della temperatura sia una misura necessaria.

In ragione del fatto che la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea, quando è associata all’identità dell’interessato, costituisce un trattamento di dati personali (art. 4, par. 1, 2) GDPR), nel rispetto dei principi di “minimizzazione” (art. 5, par.1, lett. c) GDPR) la registrazione del dato relativo non è ammessa in linea generale, salvo che:

  • per quanto riguarda i dipendenti: la registrazione della sola circostanza del superamento della soglia stabilita dalla legge e comunque quando sia necessario documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro;
  • nel caso in cui la temperatura corporea venga rilevata a clienti (ad esempio, nell’ambito della grande distribuzione) o visitatori occasionali anche qualora la temperatura risulti superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso.

L’azienda può richiedere, quale condizione per l’accesso, di rendere informazioni in merito all’eventuale esposizione al contagio da COVID 19?

Il protocollo afferma che è inibito l’ingresso in azienda in presenza di condizioni di pericolo (sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc).

Data questa premessa:

  • il datore di lavoro può invitare i propri dipendenti a fare, ove necessario, tali comunicazioni anche mediante canali dedicati;
  • tra le misure di prevenzione e contenimento del contagio vi è la preclusione dell’accesso alla sede dell’azienda a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS.

A tal fine, si ritiene sia possibile richiedere una dichiarazione che attesti tali circostanze anche a terzi (es. visitatori e utenti).

In ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Qualora fosse prevista la rilevazione della temperatura e/o la raccolta di dichiarazioni scritte con cui si attesti di non versare nelle condizioni ostative di cui al Protocollo deve essere fornita specifica informativa ai sensi del Reg. UE 679/2016 ai lavoratori e a chiunque entri in azienda in merito ai trattamenti che l’azienda stessa potrà effettuare nell’applicare le misure di sicurezza.

L’identità del dipendente affetto da Covid-19 può essere resa nota agli altri lavoratori / al RLS da parte del datore di lavoro?

La risposta al quesito è no: in relazione al fine di tutelare la salute degli altri lavoratori, in base a quanto stabilito dalle misure emergenziali, spetta alle autorità sanitarie competenti informare i “contatti stretti” del contagiato, al fine di attivare le previste misure di profilassi.

Il datore di lavoro è, invece, tenuto a fornire alle istituzioni competenti e alle autorità sanitarie le informazioni necessarie, affinché le stesse possano assolvere ai predetti compiti.

Non solo, qualsiasi informazione relativa alla salute, sia all’esterno che all’interno della struttura organizzativa di appartenenza del dipendente o collaboratore, può avvenire esclusivamente qualora ciò sia previsto da disposizioni normative o disposto dalle autorità competenti in base a poteri normativamente attribuiti.

I soggetti adibiti alla rilevazione della temperatura

Si è discusso se i datori di lavoro potessero incaricare alla rilevazione della temperatura all’accesso dei locali aziendali – gli “autorizzati al trattamento dei dati personali” ai sensi degli artt. 4, n. 10 e 29 GDPR – dei dipendenti dell’azienda o se la rilevazione dovesse rimanere esclusivamente in capo al medico competente, eventualmente tramite delegati.

Dalla struttura del protocollo, che pone la gestione dei lavoratori sintomatici in capo al medico curante e non al medico competente e la base giuridica del trattamento nell’implementazione dei protocolli di sicurezza anticontagio, più propriamente inquadrabile nella lett. g) dello stesso art. 9, par. 2 (trattamento necessario per motivi di interesse pubblico rilevante), e non in quella della medicina del lavoro ex art. 9, par. 2, lett. h), sembra che la prevenzione del Covid si ponga al di fuori dell’ambito preventivo regolato dal d.lgs. 81/2008, pur ritenuto rilevante.

Pertanto, rimanendo che, laddove possibile, optare per il medico competente sembra una valida soluzione, il datore lavoro ha certamente la possibilità di affidare tale trattamento a personale qualificato, possibilmente formato in materia di privacy e/o di salute e sicurezza sul lavoro.

Il medico competente

Nell’ambito dell’emergenza, il medico competente collabora con il datore di lavoro al fine di proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19 e, nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria, segnala al datore di lavoro “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti” ossia quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa anche allo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione. In capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori.

Questo quadro di misure, soggetto a continue evoluzioni, sarà inevitabilmente legato all’andamento dell’epidemia, sicché il la tenuta delle misure andrà “testata” nella sua applicazione pratica, nel rispetto delle normative emergenziali ma senza dimenticare i principi generali dell’ordinamento.

La fase 2, ovvero destreggiarsi tra i D.P.C.M. e le ordinanze regionali

Nel precedente articolo “Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori” (disponibile a questo link) venivano descritte in maniera succinta le previsioni governative che disciplinano la c.d. “fase 2”. Nella news citata ci si è soffermati sul D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale a sua volta prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

La normativa applicabile alle industrie (e non solo) che operano in Veneto (così come in altre Regioni italiane) non è tuttavia unicamente quella di produzione statale, in quanto va considerata anche -e soprattutto- quella di fonte regionale.

Il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, fin dall’inizio dell’emergenza legata al Covid-19, ha emanato una serie di ordinanze volte da un lato a definire il perimetro delle attività non sospese, e dall’altro a disciplinarne in concreto lo svolgimento.

Da ultimo, con ordinanza del 3 maggio, il Presidente della Regione Veneto ha previsto in dettaglio le misure che disciplinano la c.d. fase 2, e lo ha fatto integrando il proprio provvedimento con 4 allegati, ciascuno dei quali rivolti ad un settore specifico:

  1. misure per gli esercizi commerciali;
  2. protocollo condiviso per gli ambienti di lavoro;
  3. protocollo condiviso per i cantieri;
  4. protocollo condiviso per il settore del trasporto e della logistica.

Il provvedimento di cui si discute unitamente ai quattro allegati sopra richiamati, vanno naturalmente letti ed interpretati nel contesto in cui operano, con non poche difficoltà per l’imprenditore il quale deve destreggiarsi nel tentativo di produrre rimanendo competitivo nel mercato, di tutelare la salute dei propri dipendenti, e non da ultimo di evitare di incappare in sanzioni dovute alla scarsa chiarezza delle norme.

Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori

Ormai siamo tutti abituati a sentir parlare della c.d. “fase 2”, ovverosia quell’insieme di norme e previsioni che dovrebbero consentire al Paese di uscire dalla quarantena per ritornare, gradualmente, alla normalità. Ma in concreto quali sono gli obblighi per i commercianti e per le imprese? E, di converso, quali sono i diritti degli avventori e dei dipendenti?

Le norme che disciplinano la “fase 2” sono il D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

È necessario pertanto che ogni imprenditore si adegui alle previsioni di detto protocollo, dotandosi di tutte le misure in esso contenute.

Nello specifico di cosa si tratta? Il Protocollo ha ad oggetto procedure interne, dispositivi individuali di protezione, verifiche del Datore di Lavoro e massima collaborazione con il personale medico, con un occhio di riguardo anche agli aspetti legati alla privacy ed al GDPR (Reg. UE n. 679/2016).

Sono previsti anche degli obblighi di informazione che il Datore di lavoro deve garantire nei confronti dei propri dipendenti, devono essere disciplinate le modalità di accesso in azienda da parte dei lavoratori e dei fornitori esterni, devono essere previste misure di pulizia “straordinarie” ed in ogni caso idonee a limitare le possibilità di contagio, i dipendenti devono essere sensibilizzati ad un’igiene personale effettiva, e devono infine essere gestiti gli spazi comuni ed evitati in generale gli assembramenti.

Da ultimo, l’Azienda deve prevedere come gestire il caso di un dipendente e/o di un fornitore che risulti sintomatico o positivo al Covid-19.

Tutte le previsioni sopra succintamente descritte devono essere effettive e vi deve essere un’adeguata regolamentazione delle stesse, di modo che in caso di richiesta da parte dell’Autorità sia possibile per l’imprenditore darne evidenza anche attraverso l’esibizione di documenti.

Coronavirus e recesso dal contratto: i rimedi

“… il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, ha facoltà di recedere in qualsiasi momento dal contratto, dandone comunicazione mediante lettera raccomandata con almeno 6 (sei) mesi di preavviso.”

Quali misure può prendere il conduttore che, in tempi incerti come quelli che ci vedono interessati in questi giorni, si dovesse trovare nella impossibilità di adempiere alla propria obbligazione?

Come abbiamo già detto nel precedente articolo “Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi” (link) ci si trova davanti ad una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati

Tale condizione straordinaria potrebbe considerarsi quale possibilità di recesso dal contratto, superando il termine di 6 mesi contrattualmente previsto per l’avviso di recesso?

Il recesso è l’atto con il quale una delle parti contraenti manifesta la volontà di sciogliere il contratto. Tale facoltà, può essere esercitata solo se espressamente pattuita convenzionalmente (come la clausola di cui sopra) ovvero se prevista dalla legge.

L’esercizio del recesso può essere subordinato all’osservanza di un periodo di preavviso, il quale si pone conseguentemente come limite temporale all’efficacia del recesso e che la funzione di tutelare l’altra parte contrattuale dalle conseguenze negative di un recesso immediatamente efficace.

Il mancato rispetto del preavviso sopraindicato comporta due conseguenze notevoli: per il conduttore, l’obbligo di versare al locatore l’importo pari a sei canoni mensili pari al periodo del mancato preavviso, anche in presenza del rilascio dell’immobile (cfr Cass. n. 18167/2012).

Conseguenza ulteriore a carico del conduttore che recede per gravi motivi, senza dare il dovuto preavviso al locatore, è il risarcimento dei danni subiti dal locatore, a causa dell’anticipata restituzione dell’immobile. L’onere di dimostrare l’inadempimento del conduttore e che l’immobile è rimasto libero e non utilizzato grava sul locatore (Cass. n. 530/2014; Cass. n. 5827/1993).

È dunque possibile per il conduttore recedere dal contratto di locazione senza rispettare il termine di 6 mesi imposto convenzionalmente ma senza anche incorrere nelle sanzioni di cui sopra?

I provvedimenti d’urgenza adottati nelle ultime settimane non contengono norme che regolano questa materia.

La valutazione sulle conseguenze andrà individuata nel caso di specie.

In ogni caso, ricordiamo che per principio generale il conduttore non può sospendere il pagamento del canone, salvo solo il caso in cui l’immobile sia materialmente inutilizzabile.

Se invece l’immobile è in condizioni tali da poter essere utilizzato ed è nella pacifica disponibilità del conduttore, il quale tuttavia non ne può godere essendo vietato lo svolgimento dell’attività per il cui esercizio l’immobile era stato affittato, la situazione cambia. L’impossibilità di svolgere l’attività, non è imputabile a nessuna delle parti: è dovuta ad una emergenza straordinaria di tutela della salute: posso io conduttore congelare la mia sola prestazione di pagamento del prezzo?

È possibile sospendere il pagamento dei canoni di locazione/affitto in periodo di emergenza da Coronavirus?

Si potrà sospendere il pagamento del canone solo se tale facoltà sia prevista dal contratto di locazione o di affitto (in particolare, dall’eventuale clausola che regola i casi di forza maggiore).

Ma con alcuni limiti. Se la forza maggiore fosse prevista nel contratto di locazione o affitto si potrebbe richiedere la sospensione del pagamento dei canoni di locazione solo se espressamente previsto dal contratto e solo per immobili adibiti ad attività colpita da provvedimenti governativi che ne hanno disposto la chiusura totale, tra cui:

  • musei, teatri, cinema, biblioteche, archivi o altri luoghi di cultura;
  • istituti scolastici e di formazione;
  • sale giochi e sale scommesse;
  • discoteche;
  • palestre, centri sportivi, piscine, centri benessere, centri termali.

Per gli altri immobili, non colpiti dai provvedimenti di emergenza, non è possibile sospendere o ridurre i canoni di locazione/affitto, anche se il contratto contenesse una clausola di forza maggiore.

In ogni caso, è bene evidenziare, se la forza maggiore non è prevista nel contratto di locazione o affitto e la situazione di emergenza si protrae per un periodo eccessivamente prolungato:

  • Locazione di immobile colpito da provvedimento di emergenza: per l’immobile locato è stata disposta la chiusura totale, bene potrebbe essere invocata l’impossibilità sopravvenuta (definitiva) con conseguente risoluzione del contratto.
  • Per l’immobile locato è stata disposta la chiusura parziale: potrebbe essere invocata l’eccessiva onerosità sopravvenuta con conseguente rinegoziazione delle condizioni contrattuali oppure risoluzione del contratto.
  • Locazione di immobile non colpito da provvedimento di emergenza: non sembra possibile né sospendere il pagamento dei canoni né ricorrere agli altri rimedi: salvo fondare una richiesta di rinegoziazione del contratto sulla base della applicazione del principio di equità laddove fosse comprovata la eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. (vedi il precedente articolo link in cui ne abbiamo parlato).

La tutela del conduttore andrà quindi ricercata nella sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione: il conduttore non può, per una causa a lui estranea, utilizzare l’immobile per la ragione per cui lo aveva affittato. Da ciò possono trarsi valide argomentazioni non solo a sostegno della sospensione del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza ma anche il diritto di reclamare dal locatore il rimborso della parte di canone non goduto.

Occorre, pertanto, che il conduttore che intenda valersi di siffatta tutela, formalizzi al locatore la sospensione del pagamento del canone: allo stato non vi sono, infatti, provvedimenti che autorizzino la sospensione del pagamento dei canoni di locazione in favore di aziende, imprenditori, associazioni le cui attività sono stato sospese.

 

Appendice di aggiornamento al 19.03.2020

Il Decreto Legge n. 18 del 17.03.2020 (c.d. Decreto “Cura Italia”) introduce, all’art. 91, una disposizione che appare diretta a considerare le conseguenze di un inadempimento qualora le stesse derivino dal “ rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto …”.

Tale disposizione rappresenta un rafforzativo delle disposizioni del Codice Civile che lo stesso art. 1218 richiama direttamente: si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 1256 c.c. “impossibilità definitiva o temporanea” e 1258 c.c. “impossibilità parziale”.

L’inciso inserito dal D.L. rileva sia in tema di pagamento dei canoni di affitto che relativamente a tutte le diverse e variegate possibilità di “inadempimento” che possano essere conseguenza dal rispetto delle disposizioni normative d’emergenza emanate in questi giorni.

Questo il testo della norma in esame:

Art. 91 (Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici) 1. All’articolo 3 del DL 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.“. []”.

Anche alla luce dell’aggiornamento normativo appare difficile sostenere il diritto del conduttore ad un’automatica riduzione del canone. A questo punto, pertanto, qualora si voglia perseguire quel risultato non rimarrà che:

1) chiedere la riduzione del canone in via stragiudiziale;

2) nel caso di rifiuto del locatore, il conduttore potrà convocare lo stesso in mediazione;

3) nel caso di fallimento della mediazione, non rimane che la via giudiziale sostenendo una delle ipotesi più sopra formulate (ossia l’impossibilità parziale sopravvenuta, l’eccessiva onerosità sopravvenuta e la impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione dovuta alla impossibilità di svolgere la propria attività per causa non dovuta ad alcuna delle parti).

Clausole da inserire in un contratto stipulato in situazioni di emergenza: Covid-19

Come abbiamo visto nel precedente articolo (link) tra i molteplici effetti dell’emergenza sanitaria da Coronavirus si vedono anche quelli di incidere sulla capacità delle aziende di adempiere in modo corretto alle proprie obbligazioni contrattuali.

Le soluzioni giuridiche a tale difficoltà di adempimenti si potranno trovare nell’ordinamento interno ovvero, in caso di compravendita internazionale, dalle fonti che disciplinano la materia, laddove prevedono le conseguenze in caso di eventi eccezionali che, come abbiamo visto, possono definirsi all’interno del concetto di “eventi straordinari e imprevedibili”.

Per quanto riguarda l’ordinamento internazionale se ne tratta in due fonti:

  • Nella Convenzione di Vienna relativa alla vendita internazionale di beni mobili che all’art. 79 recita espressamente quanto segue: “Una parte non è responsabile dell’inadempienza di uno qualsiasi dei suoi obblighi se prova che tale inadempienza è dovuta ad un impedimento indipendente dalla sua volontà e non ci si poteva ragionevolmente attendere che essa lo prendesse in considerazione al momento della conclusione del contratto, che lo prevedesse o lo superasse, o che ne prevedesse o ne superasse le conseguenze”.
  • Da parte della Camera di Commercio internazionale, che ha redatto:
  • una clausola standard di forza maggiore “ICC Force Majeure Clause 2003”. Disciplina gran parte delle problematiche che si presentano nel contesto della forza maggiore: queste problematiche comprendono tutte quelle circostanze non imputabili alle parti che comportano l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni contrattuali, come ad esempio scioperi, calamità naturali, guerre, etc..; in questi casi la parte che non può dare esecuzione al contratto per il verificarsi di una causa maggiore, non è ritenuta responsabile.
  • la hardship clause “ICC Force Hardship Clause 2003” che disciplina le ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Il termine hardshipviene tradotto come “disagio”, “avversità”.

La hardship clause e la clausola di forza maggiore sono diverse.

A differenza della forza maggiore la hardship non è un concetto giuridico, ma un’espressione descrittiva utilizzata per indicare un evento che accade ad una delle parti. Non essendo un concetto giuridico con un significato ben specifico l’hardship può essere definito ampiamente o restrittivamente, a differenza della forza maggiore che è una clausola ampia e ben definita.

In ogni caso, presente una delle clausole sopra citate, qualora si verifichi l’evento impossibilitante, la parte che lo invoca dovrà notificarlo alla controparte fornendo prova che l’evento verificatosi corrisponda a quanto previsto dal contratto.

Le suddette clausole possono essere “superate” se le parti chiedono l’inserimento di una clausola ad hoc.

Nei contratti di matrice anglosassone è già usuale, ad esempio, l’inserimento di clausole “material adverse event“, evento avverso, che preveda la possibilità di coprire le emergenze straordinarie.

Talune clausole applicabili a tali situazioni di impossibilità assoluta della prestazione vedono il conseguente esonero della parte inadempiente da responsabilità risarcitorie per il ritardo o la definitiva mancata prestazione, oppure potranno avere uno spettro di operatività più ampio, operando rebus sic stantibus: si farà infatti luogo alla risoluzione del contratto nel caso in cui, per un mutamento della situazione di fatto esistente al momento della stipulazione, la prestazione di una delle parti divenga eccessivamente onerosa o, se ciò è previsto dalla clausola, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente gravosa potrà esigere una rinegoziazione o un adeguamento delle condizioni del contratto, in alternativa allo scioglimento dello stesso. Tutto questo, mediante la definizione in via pattizia.

Ma iniziano a farsi vedere, anche nelle compravendite disciplinate dal diritto italiano e concluse in questi giorni di incertezza economica, le “clausole Coronavirus” inserite ad hoc dalle parti per cautelarsi.

I primi esempi riguardano la possibilità di rivedere le condizioni contrattuali originariamente pattuite se la situazione di emergenza dovesse perdurare o definitivamente incidere sulla opportunità della operazione commerciale anche nel momento in cui la situazione di emergenza sarà rientrata.

Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi.

In tempi di estrema incertezza nella vita privata a farla da padrone deve essere una corretta gestione degli impegni economici che ognuno di noi ha assunto.

Molti di noi si saranno trovati a far fronte ad una impossibilità o comunque ad una estrema difficoltà di adempimento delle obbligazioni commerciali già assunte, all’interno del territorio italiano.

Questo diventa maggiormente attuale laddove, in questi giorni, sono stati assunti numerosi provvedimenti normativi d’emergenza (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che limitano l’attività economica nel nostro Paese e nei quali, pertanto, l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi delle obbligazioni assunte.

Entrando nel merito

In via preliminare si deve evidenziare che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., la mancata esecuzione di una prestazione costituisce “inadempimento contrattuale” tutte le volte in cui per l’obbligato la prestazione sia soggettivamente possibile: cioè in tutti i casi in cui con l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, potrei comunque procedere all’adempimento. La difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.

Perciò il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” o di forza maggiore, la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che “da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo” (cfr Cass. Civ., Sent. n. 15712 del 08/11/2002).

Possono i decreti emergenziali emanati dal governo giustificare l’inadempimento?

L’ordinamento italiano non prevede espressamente una definizione di “forza maggiore”; solo il Codice del Turismo all’art. 41 co. 4 tratta così il caso: “In caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il viaggiatore ha diritto di recedere dal contratto, prima dell’inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto a un indennizzo supplementare”.

Il codice civile, tratta la materia rispettivamente agli artt. 1256 e 1467.

L’art. 1256 c.c. prevede il caso in cui via una impossibilità sopravvenuta che generi un ritardo o una totale impossibilità nella esecuzione della prestazione.

Qualora ricorra tale situazione, il debitore non sarà responsabile dei danni che controparte possa subire per effetto del ritardo nell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c., finché perduri la situazione di impossibilità.

Nel caso in cui l’impossibilità diventi definitiva, o comunque duri fino a quando l’interesse che la prestazione venga in concreto realizzata venga meno (ad esempio, le merci che avrebbero dovuto essere consegnate non siano più utili), l’obbligazione si estingue, con conseguente scioglimento del vincolo contrattuale (artt. 1256 e 1463 c.c.).

L’art. 1467 c.c., previsto nei casi di contratti a prestazioni continuate o periodiche, ossia differite, prevede il caso in cui a causa di eventi straordinari e imprevedibili la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa.

In questo caso, come vedremo, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa potrà chiedere la risoluzione del contratto.

Quali cause possiamo invocare?

1) Impossibilità sopravvenuta definitiva o temporanea di cui all’art. 1256 c.c.

Sotto il profilo giuridico i recenti provvedimenti emergenziali del Governo (DPCM) possono incidere sulla capacità di eseguire le prestazioni contrattuali, determinando l’impossibilità sopravvenuta di adempiere, ai sensi dell’art. 1256 c.c.

Ciò avviene in quanto rientrano nella fattispecie del c.d. “factum principis”. Quest’ultima rappresenta una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati.

Secondo giurisprudenza consolidata, gli ordini o i divieti emanati dalle autorità sono suscettibili di determinare l’impossibilità della prestazione qualora:

  • gli stessi siano del tutto estranei alla volontà dell’obbligato (Cass. Civ., n. 21973 del 19/10/2007);
  • non siano ragionevolmente prevedibili, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione ( Civ., Sent. n. 2059 del 23/02/2000);
  • il debitore abbia sperimentato tutte le ragionevoli possibilità per adempiere regolarmente (Cass. Civ., Sent. n. 14915 del 8/06/2018; Cass. Civ., Sent. n. 11914 del 10/06/2016).

Occorre, dunque, valutare se la durata delle misure restrittive adottate per limitare la diffusione del Coronavirus sia tale da estinguere l’obbligazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1256 c.c., fermo restando che il debitore sarà tenuto ad eseguire la prestazione nel momento in cui la causa dell’impossibilità dovesse cessare – indipendentemente da un suo diverso interesse economico – sempre che la stessa sia ancora utile a controparte.

2) Eccessiva onerosità della prestazione

Diverso è, invece, il caso in cui la situazione emergenziale e i relativi divieti governativi rendano una prestazione contrattuale non impossibile, ma eccessivamente onerosa.

Ai sensi dell’art. 1467 c.c., nei contratti a esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti è ancora possibile, ma è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, la parte che deve eseguire tale prestazione può chiedere la risoluzione del contratto (salvo che tale eccessiva onerosità non rientri nel normale rischio cui è soggetta la prestazione).

Contrariamente a quanto previsto per l’impossibilità sopravvenuta, l’eccessiva onerosità non costituisce causa di estinzione di diritto dell’obbligazione, ma conferisce al debitore la facoltà di chiedere al giudice la risoluzione del contratto. La richiesta potrà avere come conseguenza la risposta, che è nel potere dell’altra parte, di non risolvere il contratto richiedendo una “riduzione” dello stesso per riportare in equilibrio le due prestazioni.

Il criterio di straordinarietà e imprevedibilità dell’avvenimento che legittima la richiesta di risoluzione del contratto è oggetto di attenta valutazione della giurisprudenza, che ha definito straordinario l’avvenimento che non si ripete con frequenza e con regolarità nel tempo, e imprevedibile l’evento che ragionevolmente non si prevede e di cui non si conoscono gli effetti. L’evento straordinario presenta quindi le caratteristiche di straordinarietà a seguito di una valutazione oggettiva che:

  • sia dovuta ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili (e sotto questo profilo i provvedimenti governativi per l’emergenza sanitaria rientrano in tale ipotesi);
  • imponga all’obbligato un sacrificio economico che eccede il normale rischio del contratto.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre dunque valutare, caso per caso, se l’evento straordinario e imprevedibile costituito dall’emergenza sanitaria e i conseguenti provvedimenti restrittivi determinino un aggravio patrimoniale per il soggetto obbligato tale da alterare l’originario rapporto contrattuale, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

In conclusione

Il soggetto la cui attività abbia in qualche modo risentito dei provvedimenti normativi disposti a tutela dell’emergenza sanitaria del Coronavirus dovrà, per prima cosa, verificare se siano o meno presenti, nel relativo contratto, specifiche disposizioni che prevedano ipotesi di “cause non imputabili al debitore” (o di forza maggiore) o di eccessiva onerosità sopravvenuta ed eventuali conseguenze giuridiche.

Successivamente si dovrà passare alla determinazione, in concreto, degli effetti derivanti dall’impossibilità temporanea o definitiva della prestazione o dal sopravvenuto disequilibrio contrattuale, per procedere secondo quanto determinato dalla disciplina civilistica.

Fattura elettronica e decreto ingiuntivo: quid iuris?

La prova scritta nel procedimento di ingiunzione

Per ottenere la soddisfazione del credito nei confronti del debitore, lo sappiamo, si può accedere ad una procedura semplificata, il procedimento di ingiunzione, disciplinato dagli artt. 633 e ss. del c.p.c.. Si tratta di un procedimento di natura sommaria che prevede l’emanazione di un provvedimento in assenza di contradditorio fra le parti (inaudita altera parte), destinato – se non opposto e, quindi, entro breve tempo – ad avere forza di giudicato.

L’accesso a tale procedimento è possibile tutte le volte in cui si fornisca una prova scritta in ordine all’esistenza del diritto (art. 633 co. 1 n. 1 c.p.c.).

Sono prove scritte idonee (art. 634 c.p.c.) “le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal Codice civile”, inoltre ai sensi comma 2 “per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano un’attività commerciale e da lavoratori autonomi, anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e ss. del c.c., purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture.

Il Giudice investito della procedura, in caso di crediti emergenti da fatture cartacee richiede, sulla base di tale presupposto normativo, il deposito di un estratto notarile autentico delle scritture contabili in cui tali fatture sono annotate. Questo al chiaro fine di fornire una prova “terza” ed inoltre “imparziale ed autorevole” che il documento autoprodotto dal creditore sia conforme all’originale da cui il credito sorge.

 

La fatturazione elettronica

Come a tutti noto, dal gennaio 2019 è entrato in vigore l’obbligo di emissione della fattura in formato elettronico (già prevista nei rapporti con la Pubblica Amministrazione già dal 2014). L’Agenzia delle Entrate, nel Provvedimento del 30 aprile 2018 n. 89757/2018, ha precisato:

  1. che la fattura elettronica è un file in formato XML (n.d.r. eXtensible Markup Language), non contenente macroistruzioni o codici eseguibili tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati,
  2. e che nel caso in cui il file della fattura sia firmato elettronicamente, il SdI effettua un controllo sulla validità del certificato di firma. In caso di esito negativo del controllo, il file viene scartato e viene inviata la ricevuta (…), cd. ricevuta di scarto.

Il Sistema di Interscambio (SdI), nell’emissione della fattura elettronica, genera documenti informatici che sono autentici e non modificabili. Si tratta di “duplicati informatici” e non di mere “copie informatiche di documenti informatici”.

L’art. 1 co. 1 lett. i) quinquies del D.Lgs. n.82/2005 “Codice dell’Amministrazione Digitale” (CAD), prevede che: “Ai fini del presente codice si intende per […] duplicato informatico: il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

Il duplicato informatico è quindi assolutamente non distinguibile dall’originale.

In ragione di queste caratteristiche l’art. 1, co. 3-ter, D. Lgs. 127/2015 prevede che i soggetti obbligati ad emettere in via esclusiva fatture mediante il SdI siano esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 (ossia il registro delle fatture emesse; in questo registro le fatture emesse devono essere annotate nell’ordine della loro numerazione e con riferimento alla loro data di emissione).

Il formato XML e i controlli del Sistema di interscambio rendono la fattura elettronica un documento idoneo per emettere un decreto ingiuntivo senza dover depositare i registri?

L’orientamento maggioritario della giurisprudenza – ancora soltanto di merito – intervenuta sul tema, è quello di considerare le fatture elettroniche titoli di per sé idonei per l’emissione, in favore di chi le ha emesse, di un decreto ingiuntivo, senza quindi l’obbligo di deposito dei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 (cfr Tribunale di Verona 29 novembre 2019).

Il Tribunale di Verona nel procedimento R.G. n. 10221/2019 afferma che la fattura elettronica prodotta in giudizio è titolo idoneo per l’emissione di un decreto ingiuntivo, poiché tale documento deve ritenersi prova scritta equipollente all’estratto autentico delle scritture contabili previsto dall’art. 634, co. 2 c.p.c., in virtù anche della considerazione che, viste le caratteristiche sopra riportate, il SDI genera documenti informatici autentici ed immodificabili, che non sono semplici “copie informatiche di documenti informatici” bensì “duplicati informatici”, assolutamente indistinguibili dai loro originali, potendo essere scaricati da “fonte/terzo qualificato”, come l’Agenzia delle Entrate.

Sul punto, in accordo con quanto argomentato in tema di obbligo di tenuta dei registri (cfr punto precedente) ha affermato “che proprio in ragione delle sopra descritte caratteristiche della fattura elettronica, l’art. 1, comma 3-ter, D. Lgs. 127/2015 prevede che i soggetti obbligati ad emetterle in via esclusiva mediante il Sistema di Interscambio (di cui al comma 3°) sono esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 cosicché per tali soggetti deve ritenersi che sia venuto meno anche l’obbligo di tenere i predetti registri, e di conseguenza gli obblighi previsti dall’art. 634 comma 2, c.p.c. ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo, poiché è illogico pensare che un’impresa debba tenere delle scritture contabili che non ha l’obbligo di utilizzare”.

L’autentica del notaio presenta infatti una duplice funzione:

  • l’autenticità del documento;
  • la regolare tenuta dei registri.

Il formato xml del documento riesce a fornire prova di autenticità del documento stesso, per le caratteristiche di cui sopra, mentre non sopperisce all’onere di regolare tenuta del registro.

Difatti, va segnalato che, nonostante questa sia la giurisprudenza prevalente, il tribunale Vicenza (in data 25 ottobre 2019) ha espresso un parere contrario. La motivazione risiede nel fatto che la prescrizione della produzione dell’estratto autentico delle scritture contabili di cui all’art. 634 c.p.c. è finalizzata a consentire un controllo estrinseco sulla regolare tenuta delle scritture in cui le fatture vengono conservate, esigenza che non può considerarsi assolta con la fatturazione elettronica. Inoltre, l’esonero dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 non consentirebbe una idonea argomentazione perché “(…) il venir meno dell’obbligo, sotto il profilo che ci occupa, non è equivalente ad un’attestazione di regolare tenuta, la quale anzi deve essere esclusa proprio per l’insussistenza di un obbligo di tenuta dei registri”.

Raccomandata ed avviso di giacenza: quando la comunicazione si considera conosciuta?

Arriva il postino al tuo indirizzo e non trovandoti a casa, lascia l’avviso di giacenza di una raccomandata.

Dopo cinque giorni ti rechi in posta e ritiri la missiva: scopri che si trattava di una comunicazione che dava tempo cinque giorni dal ricevimento per porre in essere un comportamento attivo.

La prima domanda è quindi: i termini sono spirati? Il mio ritardo nel ritiro della busta può considerarsi tempo utile all’adempimento?

Quale termine vale per la legge? La consegna dell’avviso o il ritiro della busta?

È innanzitutto necessaria una premessa: se non ritiri la raccomandata nel momento in cui questa viene depositata per assenza del destinatario, questo non può, secondo la legge, cambiare la sorte della comunicazione. La comunicazione, trascorsi dei termini stabiliti, si considererà comunque giunta a destinazione e, quindi, ricevuta e conosciuta.

Il caso contrario porterebbe infatti ad un facile modo di sottrarsi alla notifica di una citazione, di uno sfratto, di una messa in mora.

Il codice civile, all’art. 1335 afferma che la “presunzione di conoscenza opera dalla consegna dell’atto presso l’indirizzo del destinatario.”

Tuttavia il medesimo art. 1335 c.c. stabilisce che è facoltà della parte notificata di provare che non ha avuto conoscenza dell’atto alla data di presunta conoscenza senza colpa, e di essere quindi rimesso in termini.

È ora necessario distinguere a seconda dell’atto contenuto nella raccomandata e capire cosa argomenta la giurisprudenza sul punto.

  1. Raccomandata contenente atti giudiziari

Nel caso in cui il delegato/postino consegni all’indirizzo una raccomandata e non trovi nessuno, rilascerà una comunicazione con cui informa del primo tentativo di notifica.

Nel caso di tratti di raccomandata contenente un atto giudiziario il destinatario riceverà inoltre una seconda raccomandata (informativa) in cui viene comunicata la giacenza presso l’ufficio postale, con l’avviso che è possibile il ritiro entro 30 giorni

Se non verrà ritirata entro tale termine, la raccomandata sarà restituita al mittente con la dicitura “compiuta giacenza”.

Quando, quindi, la raccomandata si considera ricevuta? (Cass. sent. n. 48191/17 del 19.10.2017)

  1. Se la raccomandata viene ritirata prima di 10 giorni dall’invio della seconda raccomandata (informativa): si considera ricevuta nel giorno stesso in cui viene ritirata;
  2. Se la raccomandata viene ritirata dopo 10 giorni dall’invio della seconda raccomandata (informativa): si considera ricevuta il decimo giorno dall’invio della stessa;
  3. Se la raccomandata non viene mai ritirata all’ufficio postale: si considera ricevuta il decimo giorno dall’invio della stessa.

  1. Raccomandata per tutti gli altri atti

Per le raccomandate che non contengono atti giudiziari, vi sono regole diverse.

Questo perché vi sono anche regole diverse sulla spedizione. Se il destinatario non è a casa al momento dell’arrivo del postino, non viene spedita la seconda raccomandata (informativa): si viene a conoscenza del tentativo di consegna della comunicazione solo attraverso l’avviso immesso nella cassetta delle lettere.

Quando, quindi, la raccomandata si considera ricevuta? Secondo la giurisprudenza al momento dominante (Cass. sent. n. 23396/17 del 6.10.2017):

  • dal momento dell’immissione dell’avviso nella cassetta delle lettere (senza che rilevi il decorso dei 10 giorni che invece vale nel caso di atti giudiziari).

Vale la pena segnalare che esiste una giurisprudenza minoritaria che ritiene (Cass. Sent. n. 25791/2016) che la comunicazione a mezzo raccomandata “si ha per eseguita, in caso di mancato reperimento del destinatario da parte dell’agente postale, decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza ovvero, se anteriore, da quella di ritiro del piego“.

L’orientamento dominante però, riterrebbe spirato il termine di 5 giorni dal momento dell’immissione in cassetta dell’avviso di avvenuto deposito, fatta salva la facoltà della parte notificata di provare che non ha avuto conoscenza dell’atto alla data di presunta conoscenza senza colpa, e di essere quindi rimesso in termini.