Coronavirus e sospensione dei canoni locatizi: le sentenze più recenti

Con un provvedimento d’urgenza reso in data 14.04.2020, il Tribunale di Venezia ha impedito al locatore di un immobile adibito ad esercizio commerciale di escutere una fideiussione stipulata dal conduttore, titolare dell’attività di commercio al dettaglio, rilasciata al fine di garantire il pagamento dei canoni di locazione non abitativa dell’immobile.
Il conduttore ricorrente avrebbe infatti sostenuto di non essere in grado di pagare i canoni dovuti per i mesi di chiusura dell’attività al pubblico, individuando nella causa di forza maggiore costituita dalle misure restrittive imposte dal Governo la ragione del proprio inadempimento.
Il Tribunale, accogliendo la linea difensiva proposta dal conduttore moroso, di fatto impossibilitato al pagamento del dovuto per la locazione dell’immobile in cui aveva sede la propria attività in ragione della carenza di liquidità generata dalla sospensione delle attività imprenditoriali e commerciali, si è collocata come capofila di una serie di altri ulteriori provvedimenti, provenienti dai Tribunali di tutta Italia, tendenzialmente posti a tutela delle parti contrattuali danneggiate dal protrarsi del lockdown.
Sulla stessa linea, con sentenza resa in data 12.05.2020, il Tribunale di Bologna ha impedito al proprietario di un immobile adibito a centro estetico di incassare gli assegni bancari sottoscritti dalla conduttrice e titolare dell’attività a garanzia del pagamento dei canoni locatizi relativi al periodo aprile-luglio 2020.
Così decidendo, Il Tribunale ha permesso alla conduttrice di evitare le sanzioni che le sarebbero state comminate dalla legge nel probabile caso in cui gli assegni non fossero stati pagati per difetto di provvista (protesti, divieto di emettere nuovi assegni, ecc.).
Allo stesso modo, il Tribunale di Rimini, con provvedimento d’urgenza reso in data 25.05.2020, ha accolto le richieste di un albergatore il quale si ritrovava impossibilitato a pagare regolarmente il canone di locazione pattuito a fronte della chiusura forzata dell’attività da marzo a maggio 2020. Anche in questo caso, il proprietario dell’immobile ospitante l’esercizio alberghiero era determinato ad incassare alcuni assegni firmati in bianco a garanzia del pagamento dei canoni mensili.
Tuttavia, l’intervento del Tribunale ha impedito al proprietario di mettere all’incasso i predetti titoli, stabilendo che la prestazione dovuta dal conduttore, considerata la legislazione emergenziale e la situazione di fatto esistente, non si sarebbe potuta considerare normalmente esigibile.
Elemento comune ai tre casi giudiziari sopra citati è la natura d’urgenza dei provvedimenti reso dai tribunali aditi, i quali ben potrebbero subire notevoli ribaltamenti al termine del successivo giudizio a cognizione piena.
Tuttavia, emerge con chiarezza la tendenza della giurisprudenza di merito a portare a termine quanto solo preventivato dal Governo in tema di locazione non abitativa, ma mai effettivamente realizzato: infatti, l’art. 65 del D.L. Cura Italia non ha sospeso il pagamento dei canoni di locazione, limitandosi a prevedere un credito d’imposta pari al 60% del canone per i conduttori la cui attività è stata chiusa o limitata dalla legislazione emergenziale Covid-19. Non resta dunque che attendere l’esito dei giudizi instaurati successivamente alla pronuncia dei sopra citati provvedimenti, onde verificare l’effettivo orientamento dei tribunali di merito.

Coronavirus: il ruolo delle circolari amministrative nella gestione dell’emergenza

Com’è noto, la rapida diffusione del Covid-19 ha richiesto l’emanazione di una serie di norme giuridiche urgenti, destinate al contenimento degli effetti dannosi della pandemia.

La legislazione emergenziale adottata dal Governo è composta da alcuni decreti-legge e da vari decreti ministeriali attuativi (per maggiori informazioni clicca qui) i quali, a causa delle tempistiche ristrette imposte dall’aggravarsi della pandemia, si sono spesso posti in contraddizione tra loro, dando vita a gravi incertezze applicative della normativa vigente.

Per questo motivo, i singoli ministeri coinvolti nella gestione dell’epidemia e delle conseguenze sfavorevoli a questa connesse (come il Ministero della Salute o il Ministero dell’Interno), nel tentativo di risolvere le incoerenze contenute nei provvedimenti governativi e di giungere ad un’applicazione omogenea della legislazione d’emergenza, si sono avvalsi di un prezioso strumento per coordinare l’attività dei rispettivi uffici amministrativi: le circolari amministrative.

Le circolari amministrative vengono tradizionalmente definite come atti di un’autorità superiore con cui viene regolata la condotta di autorità inferiore nello svolgimento dei propri doveri d’ufficio. Non hanno quindi carattere normativo (per saperne di più sulle norme giuridiche clicca qui), ma rappresentano lo strumento mediante il quale l’amministrazione fornisce indicazioni in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi i propri dipendenti ed i propri uffici. In altre parole, le circolari amministrative contengono le istruzioni che il Ministro dà agli uffici amministrativi, sia centrali che periferici, al fine di assicurare l’applicazione omogenea della normativa vigente.

La peculiarità di tali provvedimenti è quindi da individuarsi nella loro efficacia limitata, dato che gli unici destinatari delle disposizioni in esse contenute possono essere solo gli uffici amministrativi e non, come nel caso di atti normativi, i singoli consociati.

Tanto premesso, osservandone più da vicino le caratteristiche strutturali, è possibile classificare le tipologie più frequentemente utilizzate in tre macro-categorie descrittive.

Le circolari amministrative, in primo luogo, possono essere meramente informative, assimilabili a bollettini e newsletter, e diffuse all’interno degli uffici della pubblica amministrazione per fornire notizie e aggiornamenti di varia natura. All’evidenza, alle circolari informative non può essere riconosciuto alcun valore giuridico.

Altre circolari, invece, sono finalizzate a chiarire l’operatività di norme giuridiche nuove: si tratta delle cosiddette circolari interpretative.

Le circolari interpretative hanno l’unico scopo di garantire l’applicazione uniforme della legge, indicando agli uffici competenti come applicare determinate norme giuridiche. Tale tipologia di atto amministrativo non ha efficacia vincolante, data la sua assimilabilità ad un’opinione interpretativa della legge fornita da un soggetto autorevole. Pertanto, è fuori di dubbio che non possano pertanto vincolare al loro rispetto soggetti esterni alla pubblica amministrazione, quali, ad esempio, i giudici.

Mentre le circolari informative ed interpretative, come visto, non producono in ogni caso effetti verso l’esterno, le cosiddette circolari normative sono idonee a produrre effetti riflessi anche al di fuori della pubblica amministrazione: indicano infatti alla pubblica amministrazione con quali modalità esercitare un potere attribuitole dalla legge, di fatto influenzando l’emissione e il contenuto dei singoli provvedimenti amministrativi.

In tale ultima ipotesi, l’efficacia esterna della circolare normativa, cioè verso i non appartenenti alla pubblica amministrazione, è comunque solo indiretta e mediata, nella misura in cui gli organi amministrativi destinatari di tali atti ne tengano conto per l’emanazione di atti incidenti la sfera giuridica soggettiva di terzi.

In ogni caso, la denominazione non deve trarre in inganno: le circolari normative non sono considerate formalmente fonti di diritto dall’ordinamento generale e, pertanto, non possono incidere direttamente su diritti, obblighi e, più in generale, sulle posizioni giuridiche soggettive delle persone.

Ciò significa che il provvedimento amministrativo (ad esempio una sanzione) viene emesso in forza di una circolare normativa contrastante con la legge, non potrà che essere dichiarato illegittimo.

Smart working – istruzioni per l’uso

L’emergenza epidemiologica causata dal coronavirus ha determinato il ricorso massivo allo svolgimento dell’attività di lavoro subordinato fuori dai locali aziendali. Una sorta di “applicazione sperimentale su larga scala” di una modalità di lavoro che in anni recenti è comunque stata adottata spontaneamente da un numero crescente di aziende: lo smart working o lavoro agile.

Anche se l’emergenza ha creato la necessità di agire in tempi rapidi per garantire la continuità aziendale, le deroghe alla disciplina quadro sul lavoro agile non sono molte e ne vanno rispettati i principi generali. Una spinta all’agilità dell’organizzazione non può che comportare un positivo slancio per le attività in vista di un ripensamento della realtà in cui viviamo e del concetto di produttività.

La disciplina quadro

La disciplina del lavoro agile ha ricevuto un inquadramento normativo con la L. 81/2017 che contiene “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

La norma varata tre anni fa ha regolamentato il fenomeno definendo delle regole quadro per il corretto svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’impresa e senza vincoli di orari, a beneficio del dipendente e del datore di lavoro: la normativa lascia a impresa e lavoratore la possibilità di declinare i principi generali in base alle esigenze specifiche, tramite un accordo tra le parti.

Il periodo di emergenza

La suesposta disciplina subisce nel contesto dell’emergenza Covid una deroga temporanea (al momento fino al 31 luglio) che riguarda la non obbligatorietà dell’accordo iniziale e la semplificazione dell’informativa da dare al dipendente in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Restano invece invariate quell’insieme di regole che ne sono il cuore pulsante. Inoltre, non si deve dimenticare che il lavoro agile si colloca nella cornice del lavoro subordinato, il cui tratto centrale continua a essere l’esercizio dei poteri di direzione e controllo.

Nel periodo di emergenza, in cui si può prescindere dall’accordo individuale, è comunque opportuno fornire al lavoratore in smart working l’informativa sulle modalità d’uso degli strumenti di lavoro e sui controlli datoriali.

Gli strumenti tecnologici forniti al Dipendente per la prestazione in modalità agile, infatti, sono configurabili come strumenti “utilizzati per rendere la prestazione lavorativa” anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 4.2 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

Conseguentemente, le informazioni raccolte possono essere utilizzate per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, se è stata data informazione ai lavoratori sulle modalità di uso degli strumenti stessi, sugli interventi che potranno venir compiuti nel sistema informatico aziendale ovvero nel singolo strumento e sui conseguenti sistemi di controllo che potranno venire eventualmente compiuti, fermo restando il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali

Laddove non si fosse mai ricorsi alla pratica del lavoro agile, sarebbe bene procedere inoltre con la redazione di una policy o di un regolamento smart working, con principi e regole di condotta cui i lavoratori debbono uniformarsi. I contenuti possono prendere in considerazione queste macro tematiche:

  • scelta del luogo da cui rendere la prestazione;
  • uso di pc e altri strumenti;
  • orario e le fasce di reperibilità;
  • diritto/ dovere di disconnessione;
  • cooperazione al rispetto delle misure di sicurezza;
  • misure di protezione e riservatezza dei dati aziendali.

Il perimetro del controllo datoriale

Tali poteri sono più difficilmente esercitabili in assenza di un contatto diretto tra datore di lavoro e dipendente.

Come fare? Nella prassi si sono affermate regole quali quella di chiedere ai dipendenti la compilazione di una scheda con le prestazioni da svolgere nell’arco di un dato periodo (settimana / mese) con un report finale sugli obiettivi conseguiti, nella compilazione di questionari con le prestazioni svolte oppure nella fissazione di obiettivi di risultato per un dato periodo con la misurazione periodica del loro conseguimento.

…l’organizzazione del lavoro

Lo smart working, a differenza del vecchio telelavoro, si caratterizza per essere una modalità di svolgimento dell’attività subordinata “senza precisi vincoli di orario o luogo di lavoro”.

L’unico limite che la legge pone è quello della durata massima dell’orario giornaliero e settimanale prevista dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Non si possono dunque superare le 48 ore settimanali e le 13 ore giornaliere, posto che 11 ore giornaliere consecutive devono essere dedicate al riposo. Non si applica invece il limite dell’orario normale di lavoro (40 ore).

Per il periodo di emergenza coronavirus è opportuno impartire, anche unilateralmente, anche ad esempio con una semplice e-mail, le necessarie prescrizioni sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Allo stesso modo, potranno essere indicati unilateralmente i limiti massimi di orario, i tempi di riposo e quelli di disconnessione.

Questo permetterà, di fatto, di definire il perimetro del controllo datoriale.

….il diritto alla disconnessione

L’articolo 19 della legge 81/2017 stabilisce espressamente che siano individuate le misure che, sul piano tecnico e organizzativo, assicurano la disconnessione del dipendente dagli strumenti tecnologici in dotazione.

Come? Le best practice sulla materia evidenziano come la misura possa essere efficacemente attuata attraverso, ad es., la disattivazione automatica dal server o la comparsa di una notifica sui dispositivi in dotazione al lavoratore, per indicare l’obbligo di spegnimento dei dispositivi.

…le sanzioni disciplinari

L’articolo 21 della legge 81/2017 dispone che siano individuate le condotte che, se violate o disattese dai lavoratori, comportano l’applicazione di sanzioni disciplinari.

La previsione può essere soddisfatta individuando nel regolamento aziendale – di cui parlavamo più sopra – di principi e regole di condotta cui i lavoratori debbono uniformarsi.

Quanto alle sanzioni, può essere fatto un rinvio alle disposizioni in materia del contratto collettivo, nel rispetto del generale principio di proporzionalità.

La sicurezza e la protezione dei dati da intrusioni esterne

Tema centrale, inoltre, quando si opera in modalità agile, è la protezione dei dati aziendali da intrusioni esterne.

Per consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa in regime di smart working, la fornitura di dispositivi mobili aziendali (es. PC e tablet) rappresenta indubbiamente l’opzione preferibile, essendo la più idonea a ridurre i rischi di promiscuità di trattamenti tra vita privata e lavorativa, e garantendo altresì la segregazione non solo logica ma anche fisica dei dati.

Per l’utilizzo di tali dispositivi l’azienda deve applicare le misure di sicurezza già previste per gli strumenti in uso presso i propri locali ed in sintesi:

  • sotto il profilo informatico, installare sistemi antivirusanti-malwarefirewall, applicativi di gestione del computer da remoto, accessi sicuri alla rete ed ai server
  • sotto il profilo organizzativo, predisporre informative e policyper l’utilizzo degli strumenti informatici in regime di smart working.

Laddove l’utilizzo dei dispositivi aziendali non sia possibile, è fondamentale, per le imprese, enunciare norme di comportamento rigorose sull’uso degli strumenti elettronici personali e sull’accesso a internet.

Regole tipo a questo preciso fine – da inserire nel medesimo regolamento aziendale – sono quelle che:

  • pongono limiti di luogo, enunciando il divieto di prestare l’attività in locali pubblici o da postazioni con wifi ad accesso libero;
  • pongono il divieto di scaricare applicazioni che non siano strettamente funzionali alla prestazione;
  • pongono il divieto di riversare i dati aziendali sui device personali.

La sperimentazione dello smart working su larga scala che stiamo vivendo ha una funzione importante di “sconvolgimento” di mentalità e abitudini esistenti. Per potere agire in questo senso bisogna tenere conto che l’espressione smart working sottende una nuova modalità di organizzazione del lavoro che si fonda sulla responsabilizzazione delle persone e dei gruppi e sulla collaborazione.

Emergenza coronavirus: il valore legale delle F.A.Q.

Con l’acuirsi dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19, il Governo italiano ha adottato una serie cospicua di misure urgenti al fine di limitare gli spostamenti della popolazione e, di conseguenza, contenere il contagio. Nello specifico, dal 31.01.2020 ad oggi sono stati emanati ben 22 provvedimenti, di cui 19 ancora in vigore.

Se, da un lato, il rapido diffondersi della pandemia ha richiesto una prontezza di rilessi inusuale per la pubblica amministrazione, dall’altro lato l’emanazione compulsiva di nuove disposizioni, non sempre chiare e coerenti tra loro, ha costituito il substrato ideale per la proliferazione di una fitta giungla normativa, all’interno della quale è difficile orientarsi sia per i professionisti del settore che per i cittadini.

Per questa ragione, il Governo e le singole Regioni hanno dedicato un’apposita sezione dei propri siti istituzionali a fornire risposte concrete alle questioni interpretative più di frequente sollevate dai destinatari della legislazione emergenziale (le cosiddette F.A.Q., “Frequently Asked Questions”), in modo da facilitare la comprensione della normativa vigente.

Considerato che le F.A.Q., all’oggi, costituiscono lo strumento preferenziale attraverso cui i cittadini orientano il proprio comportamento sia pubblico che privato, è legittimo interrogarsi su quale sia il valore legale a queste riconosciuto.

Nello specifico, appare opportuno chiedersi se il contenuto delle F.A.Q. possa vincolare l’attività della pubblica amministrazione, impedendo (o determinando) l’irrogazione di sanzioni.

L’analisi del problema non può che prendere le mosse da alcune considerazioni generali in tema di fonti del diritto, generalmente definibili come i fatti o gli atti abilitati dall’ordinamento a produrre norme giuridiche.

A loro volta, le norme giuridiche possono essere qualificate come comandi generali ed astratti, rivolti a tutti i consociati e presidiati da apposita sanzione, con i quali si impone di tenere (o non tenere) una determinata condotta.

Appare dunque evidente come il potere di emanare norme giuridiche, se abusato, possa pregiudicare gravemente la vita pubblica e privata dei singoli.

Proprio per tale ragione, la Costituzione italiana, che riconosce e cristallizza quale valore supremo dell’ordinamento la sovranità popolare (art. 1 Cost.), attribuisce la prerogativa della produzione del diritto all’unico organo costituzionale direttamente eletto dai cittadini e, quindi, rappresentativo della volontà popolare: il Parlamento.

Per contro, al Governo spetta il cosiddetto potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi all’interno dello Stato, avvalendosi della forza pubblica per garantirne il rispetto.

Tuttavia, non è realistico pensare che l’intera vita normativa del Paese possa essere gestita esclusivamente dal Parlamento: infatti, il meccanismo previsto dalla Costituzione per l’adozione di una legge è estremamente lento e farraginoso, tanto da essere considerato sostanzialmente impraticabile in situazioni di emergenza.

Al contrario, il Governo esercita le proprie prerogative costituzionali in modo più snello e rapido, al di fuori delle logiche e dei vincoli tipici dell’iter legislativo parlamentare. Già la Costituzione ha quindi previsto la possibilità che sia il Governo stesso ad adottare direttamente atti con forza di legge: il decreto legislativo e il decreto-legge.

In particolare, il dettato costituzionale ha individuato proprio nel decreto-legge lo strumento preferenziale per la gestione di situazioni emergenziali: infatti, il decreto-legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare in casi di straordinaria necessità e urgenza, che entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e che necessita di essere convertito in legge dal Parlamento solo 60 giorni dalla sua pubblicazione, pena la perdita di efficacia delle disposizioni in esso contenute.

È chiaro dunque come il legislatore costituzionale, nel prevedere e disciplinare l’utilizzo del decreto-legge, abbia comunque tentato di garantire il rispetto del principio della sovranità popolare, prevedendo una necessaria ratifica dell’operato del Governo da parte del Parlamento nazionale.

Traendo le somme di quanto sin qui esposto, è possibile classificare una prima categoria di fonti di produzione del diritto: la Costituzione, la legge ordinaria e gli atti aventi forza di legge, in quanto direttamente validate dall’organo parlamentare, possono essere definite come fonti primarie.

Il Governo e le altre autorità pubbliche ben possono creare norme giuridiche vincolanti per mezzo di altri decreti, provvedimenti o altri regolamenti adottati in autonomia, ma la loro validità è subordinata all’esistenza di una fonte primaria che ne legittimi l’emanazione e ne disciplini, più o meno dettagliatamente, il contenuto. Per tale motivo, tali fonti di produzione del diritto vengono usualmente definite come fonti secondarie.

Ciascuno degli atti sopra indicati deve conformarsi a specifici requisiti formali, stabiliti dalla legge per le diverse tipologie di provvedimento (ad esempio, portare la dicitura di “Decreto-Legge” o “Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri”) e deve essere emesso al termine di un procedimento di formazione anch’esso predeterminato dalla legge.

Prevedendo una serie di requisiti formali per l’adozione di determinati provvedimenti, è possibile infatti garantire una maggiore certezza nell’applicazione del diritto.

Tanto premesso, riprendendo la questione iniziale, appare evidente come le F.A.Q. non trovino alcuna collocazione all’interno dello schema descritto. Infatti, non solo queste non vengono emanate all’esito di un procedimento predefinito dalla legge, ma non vengono nemmeno richiamate dalle norme in vigore.

Tuttalpiù, alle F.A.Q. potrebbe essere riconosciuta la mera funzione di illustrazione delle regole già formate, senza alcuna pretesa di vincolatività.

In conclusione, un potenziale contrasto tra le indicazioni contenute nelle F.A.Q. e la normativa in vigore non sarebbe che una lotta impari, non avendo le prime alcun effettivo valore legale.

Il Protocollo condiviso: le risposte agli aspetti privacy problematici

Dopo il periodo trascorso in lockdown la “Fase 2” è iniziata ed alle imprese che riprendono l’attività spetta interpretare le normative e i documenti emanati in questo periodo d’emergenza per essere compliant e gestire al meglio la ripresa nel rispetto della salute e sicurezza del luogo di lavoro.

Un documento importante nella “Fase 2” è il Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del COVID-19 redatto in condivisione dalle parti sociali e contenente una serie di prescrizioni per il contenimento della diffusione del virus nello svolgimento – sicuro – dell’attività produttiva.

Il 24 Aprile è stata diffusa la versione aggiornata del suddetto protocollo (la prima versione è del 14 marzo), la cui applicazione su base nazionale è rinnovata dal D.P.C.M. del 26 aprile 2020. Il protocollo è recepito anche nell’Ordinanza Regione Veneto n. 44 del 3 maggio 2020, che ne inserisce il testo all’Allegato 2.

Principi generali

Il protocollo definisce il Covid-19 come rischio biologico generico: il documento pertanto si rivolge a tutte le aziende, in quanto possibilmente soggette a tale rischio, sia per la gestione della sicurezza dei lavoratori negli ambienti di lavoro, sia per l’adozione di misure di contenimento della diffusione nei confronti di chiunque entri nei luoghi di lavoro: clienti, fornitori, dipendenti dei fornitori e simili.

È bene evidenziare che, nella modifica adottata il 24 aprile, la mancata attuazione del protocollo, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Oltre alle prescrizioni organizzative (quali la sanificazione dei locali, ecc.), il rispetto del protocollo può comportare una serie di operazioni di trattamento di dati personali cui è bene porre attenzione per procedere in modo conforme alle normative vigenti.

Il Garante privacy è intervenuto in data 4 maggio con una serie di faq (https://www.garanteprivacy.it/temi/coronavirus/faq) volte a fare un po’ di chiarezza sui principali snodi problematici cui le imprese si sono trovate a fare i conti nell’attuazione del protocollo.

Modalità di ingresso in azienda (di tutti i soggetti) – Il datore di lavoro può rilevare la temperatura corporea del personale dipendente o di utenti, fornitori, visitatori e clienti all’ingresso della propria sede?

Innanzitutto, per rispettare la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, è bene premettere che la misurazione della temperatura all’ingresso non ha carattere obbligatorio. È tuttavia vero che il Datore di Lavoro ha l’onere di garantire il rispetto delle misure a tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro e, dal Par. 2 del protocollo, di impedire l’accesso ai soggetti con temperatura superiore ai 37,5°: per cui lo stesso potrebbe ritenere che la rilevazione della temperatura sia una misura necessaria.

In ragione del fatto che la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea, quando è associata all’identità dell’interessato, costituisce un trattamento di dati personali (art. 4, par. 1, 2) GDPR), nel rispetto dei principi di “minimizzazione” (art. 5, par.1, lett. c) GDPR) la registrazione del dato relativo non è ammessa in linea generale, salvo che:

  • per quanto riguarda i dipendenti: la registrazione della sola circostanza del superamento della soglia stabilita dalla legge e comunque quando sia necessario documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro;
  • nel caso in cui la temperatura corporea venga rilevata a clienti (ad esempio, nell’ambito della grande distribuzione) o visitatori occasionali anche qualora la temperatura risulti superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso.

L’azienda può richiedere, quale condizione per l’accesso, di rendere informazioni in merito all’eventuale esposizione al contagio da COVID 19?

Il protocollo afferma che è inibito l’ingresso in azienda in presenza di condizioni di pericolo (sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc).

Data questa premessa:

  • il datore di lavoro può invitare i propri dipendenti a fare, ove necessario, tali comunicazioni anche mediante canali dedicati;
  • tra le misure di prevenzione e contenimento del contagio vi è la preclusione dell’accesso alla sede dell’azienda a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS.

A tal fine, si ritiene sia possibile richiedere una dichiarazione che attesti tali circostanze anche a terzi (es. visitatori e utenti).

In ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Qualora fosse prevista la rilevazione della temperatura e/o la raccolta di dichiarazioni scritte con cui si attesti di non versare nelle condizioni ostative di cui al Protocollo deve essere fornita specifica informativa ai sensi del Reg. UE 679/2016 ai lavoratori e a chiunque entri in azienda in merito ai trattamenti che l’azienda stessa potrà effettuare nell’applicare le misure di sicurezza.

L’identità del dipendente affetto da Covid-19 può essere resa nota agli altri lavoratori / al RLS da parte del datore di lavoro?

La risposta al quesito è no: in relazione al fine di tutelare la salute degli altri lavoratori, in base a quanto stabilito dalle misure emergenziali, spetta alle autorità sanitarie competenti informare i “contatti stretti” del contagiato, al fine di attivare le previste misure di profilassi.

Il datore di lavoro è, invece, tenuto a fornire alle istituzioni competenti e alle autorità sanitarie le informazioni necessarie, affinché le stesse possano assolvere ai predetti compiti.

Non solo, qualsiasi informazione relativa alla salute, sia all’esterno che all’interno della struttura organizzativa di appartenenza del dipendente o collaboratore, può avvenire esclusivamente qualora ciò sia previsto da disposizioni normative o disposto dalle autorità competenti in base a poteri normativamente attribuiti.

I soggetti adibiti alla rilevazione della temperatura

Si è discusso se i datori di lavoro potessero incaricare alla rilevazione della temperatura all’accesso dei locali aziendali – gli “autorizzati al trattamento dei dati personali” ai sensi degli artt. 4, n. 10 e 29 GDPR – dei dipendenti dell’azienda o se la rilevazione dovesse rimanere esclusivamente in capo al medico competente, eventualmente tramite delegati.

Dalla struttura del protocollo, che pone la gestione dei lavoratori sintomatici in capo al medico curante e non al medico competente e la base giuridica del trattamento nell’implementazione dei protocolli di sicurezza anticontagio, più propriamente inquadrabile nella lett. g) dello stesso art. 9, par. 2 (trattamento necessario per motivi di interesse pubblico rilevante), e non in quella della medicina del lavoro ex art. 9, par. 2, lett. h), sembra che la prevenzione del Covid si ponga al di fuori dell’ambito preventivo regolato dal d.lgs. 81/2008, pur ritenuto rilevante.

Pertanto, rimanendo che, laddove possibile, optare per il medico competente sembra una valida soluzione, il datore lavoro ha certamente la possibilità di affidare tale trattamento a personale qualificato, possibilmente formato in materia di privacy e/o di salute e sicurezza sul lavoro.

Il medico competente

Nell’ambito dell’emergenza, il medico competente collabora con il datore di lavoro al fine di proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19 e, nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria, segnala al datore di lavoro “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti” ossia quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa anche allo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione. In capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori.

Questo quadro di misure, soggetto a continue evoluzioni, sarà inevitabilmente legato all’andamento dell’epidemia, sicché il la tenuta delle misure andrà “testata” nella sua applicazione pratica, nel rispetto delle normative emergenziali ma senza dimenticare i principi generali dell’ordinamento.

La fase 2, ovvero destreggiarsi tra i D.P.C.M. e le ordinanze regionali

Nel precedente articolo “Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori” (disponibile a questo link) venivano descritte in maniera succinta le previsioni governative che disciplinano la c.d. “fase 2”. Nella news citata ci si è soffermati sul D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale a sua volta prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

La normativa applicabile alle industrie (e non solo) che operano in Veneto (così come in altre Regioni italiane) non è tuttavia unicamente quella di produzione statale, in quanto va considerata anche -e soprattutto- quella di fonte regionale.

Il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, fin dall’inizio dell’emergenza legata al Covid-19, ha emanato una serie di ordinanze volte da un lato a definire il perimetro delle attività non sospese, e dall’altro a disciplinarne in concreto lo svolgimento.

Da ultimo, con ordinanza del 3 maggio, il Presidente della Regione Veneto ha previsto in dettaglio le misure che disciplinano la c.d. fase 2, e lo ha fatto integrando il proprio provvedimento con 4 allegati, ciascuno dei quali rivolti ad un settore specifico:

  1. misure per gli esercizi commerciali;
  2. protocollo condiviso per gli ambienti di lavoro;
  3. protocollo condiviso per i cantieri;
  4. protocollo condiviso per il settore del trasporto e della logistica.

Il provvedimento di cui si discute unitamente ai quattro allegati sopra richiamati, vanno naturalmente letti ed interpretati nel contesto in cui operano, con non poche difficoltà per l’imprenditore il quale deve destreggiarsi nel tentativo di produrre rimanendo competitivo nel mercato, di tutelare la salute dei propri dipendenti, e non da ultimo di evitare di incappare in sanzioni dovute alla scarsa chiarezza delle norme.

Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori

Ormai siamo tutti abituati a sentir parlare della c.d. “fase 2”, ovverosia quell’insieme di norme e previsioni che dovrebbero consentire al Paese di uscire dalla quarantena per ritornare, gradualmente, alla normalità. Ma in concreto quali sono gli obblighi per i commercianti e per le imprese? E, di converso, quali sono i diritti degli avventori e dei dipendenti?

Le norme che disciplinano la “fase 2” sono il D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

È necessario pertanto che ogni imprenditore si adegui alle previsioni di detto protocollo, dotandosi di tutte le misure in esso contenute.

Nello specifico di cosa si tratta? Il Protocollo ha ad oggetto procedure interne, dispositivi individuali di protezione, verifiche del Datore di Lavoro e massima collaborazione con il personale medico, con un occhio di riguardo anche agli aspetti legati alla privacy ed al GDPR (Reg. UE n. 679/2016).

Sono previsti anche degli obblighi di informazione che il Datore di lavoro deve garantire nei confronti dei propri dipendenti, devono essere disciplinate le modalità di accesso in azienda da parte dei lavoratori e dei fornitori esterni, devono essere previste misure di pulizia “straordinarie” ed in ogni caso idonee a limitare le possibilità di contagio, i dipendenti devono essere sensibilizzati ad un’igiene personale effettiva, e devono infine essere gestiti gli spazi comuni ed evitati in generale gli assembramenti.

Da ultimo, l’Azienda deve prevedere come gestire il caso di un dipendente e/o di un fornitore che risulti sintomatico o positivo al Covid-19.

Tutte le previsioni sopra succintamente descritte devono essere effettive e vi deve essere un’adeguata regolamentazione delle stesse, di modo che in caso di richiesta da parte dell’Autorità sia possibile per l’imprenditore darne evidenza anche attraverso l’esibizione di documenti.

Coronavirus e recesso dal contratto: i rimedi

“… il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, ha facoltà di recedere in qualsiasi momento dal contratto, dandone comunicazione mediante lettera raccomandata con almeno 6 (sei) mesi di preavviso.”

Quali misure può prendere il conduttore che, in tempi incerti come quelli che ci vedono interessati in questi giorni, si dovesse trovare nella impossibilità di adempiere alla propria obbligazione?

Come abbiamo già detto nel precedente articolo “Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi” (link) ci si trova davanti ad una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati

Tale condizione straordinaria potrebbe considerarsi quale possibilità di recesso dal contratto, superando il termine di 6 mesi contrattualmente previsto per l’avviso di recesso?

Il recesso è l’atto con il quale una delle parti contraenti manifesta la volontà di sciogliere il contratto. Tale facoltà, può essere esercitata solo se espressamente pattuita convenzionalmente (come la clausola di cui sopra) ovvero se prevista dalla legge.

L’esercizio del recesso può essere subordinato all’osservanza di un periodo di preavviso, il quale si pone conseguentemente come limite temporale all’efficacia del recesso e che la funzione di tutelare l’altra parte contrattuale dalle conseguenze negative di un recesso immediatamente efficace.

Il mancato rispetto del preavviso sopraindicato comporta due conseguenze notevoli: per il conduttore, l’obbligo di versare al locatore l’importo pari a sei canoni mensili pari al periodo del mancato preavviso, anche in presenza del rilascio dell’immobile (cfr Cass. n. 18167/2012).

Conseguenza ulteriore a carico del conduttore che recede per gravi motivi, senza dare il dovuto preavviso al locatore, è il risarcimento dei danni subiti dal locatore, a causa dell’anticipata restituzione dell’immobile. L’onere di dimostrare l’inadempimento del conduttore e che l’immobile è rimasto libero e non utilizzato grava sul locatore (Cass. n. 530/2014; Cass. n. 5827/1993).

È dunque possibile per il conduttore recedere dal contratto di locazione senza rispettare il termine di 6 mesi imposto convenzionalmente ma senza anche incorrere nelle sanzioni di cui sopra?

I provvedimenti d’urgenza adottati nelle ultime settimane non contengono norme che regolano questa materia.

La valutazione sulle conseguenze andrà individuata nel caso di specie.

In ogni caso, ricordiamo che per principio generale il conduttore non può sospendere il pagamento del canone, salvo solo il caso in cui l’immobile sia materialmente inutilizzabile.

Se invece l’immobile è in condizioni tali da poter essere utilizzato ed è nella pacifica disponibilità del conduttore, il quale tuttavia non ne può godere essendo vietato lo svolgimento dell’attività per il cui esercizio l’immobile era stato affittato, la situazione cambia. L’impossibilità di svolgere l’attività, non è imputabile a nessuna delle parti: è dovuta ad una emergenza straordinaria di tutela della salute: posso io conduttore congelare la mia sola prestazione di pagamento del prezzo?

È possibile sospendere il pagamento dei canoni di locazione/affitto in periodo di emergenza da Coronavirus?

Si potrà sospendere il pagamento del canone solo se tale facoltà sia prevista dal contratto di locazione o di affitto (in particolare, dall’eventuale clausola che regola i casi di forza maggiore).

Ma con alcuni limiti. Se la forza maggiore fosse prevista nel contratto di locazione o affitto si potrebbe richiedere la sospensione del pagamento dei canoni di locazione solo se espressamente previsto dal contratto e solo per immobili adibiti ad attività colpita da provvedimenti governativi che ne hanno disposto la chiusura totale, tra cui:

  • musei, teatri, cinema, biblioteche, archivi o altri luoghi di cultura;
  • istituti scolastici e di formazione;
  • sale giochi e sale scommesse;
  • discoteche;
  • palestre, centri sportivi, piscine, centri benessere, centri termali.

Per gli altri immobili, non colpiti dai provvedimenti di emergenza, non è possibile sospendere o ridurre i canoni di locazione/affitto, anche se il contratto contenesse una clausola di forza maggiore.

In ogni caso, è bene evidenziare, se la forza maggiore non è prevista nel contratto di locazione o affitto e la situazione di emergenza si protrae per un periodo eccessivamente prolungato:

  • Locazione di immobile colpito da provvedimento di emergenza: per l’immobile locato è stata disposta la chiusura totale, bene potrebbe essere invocata l’impossibilità sopravvenuta (definitiva) con conseguente risoluzione del contratto.
  • Per l’immobile locato è stata disposta la chiusura parziale: potrebbe essere invocata l’eccessiva onerosità sopravvenuta con conseguente rinegoziazione delle condizioni contrattuali oppure risoluzione del contratto.
  • Locazione di immobile non colpito da provvedimento di emergenza: non sembra possibile né sospendere il pagamento dei canoni né ricorrere agli altri rimedi: salvo fondare una richiesta di rinegoziazione del contratto sulla base della applicazione del principio di equità laddove fosse comprovata la eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. (vedi il precedente articolo link in cui ne abbiamo parlato).

La tutela del conduttore andrà quindi ricercata nella sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione: il conduttore non può, per una causa a lui estranea, utilizzare l’immobile per la ragione per cui lo aveva affittato. Da ciò possono trarsi valide argomentazioni non solo a sostegno della sospensione del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza ma anche il diritto di reclamare dal locatore il rimborso della parte di canone non goduto.

Occorre, pertanto, che il conduttore che intenda valersi di siffatta tutela, formalizzi al locatore la sospensione del pagamento del canone: allo stato non vi sono, infatti, provvedimenti che autorizzino la sospensione del pagamento dei canoni di locazione in favore di aziende, imprenditori, associazioni le cui attività sono stato sospese.

 

Appendice di aggiornamento al 19.03.2020

Il Decreto Legge n. 18 del 17.03.2020 (c.d. Decreto “Cura Italia”) introduce, all’art. 91, una disposizione che appare diretta a considerare le conseguenze di un inadempimento qualora le stesse derivino dal “ rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto …”.

Tale disposizione rappresenta un rafforzativo delle disposizioni del Codice Civile che lo stesso art. 1218 richiama direttamente: si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 1256 c.c. “impossibilità definitiva o temporanea” e 1258 c.c. “impossibilità parziale”.

L’inciso inserito dal D.L. rileva sia in tema di pagamento dei canoni di affitto che relativamente a tutte le diverse e variegate possibilità di “inadempimento” che possano essere conseguenza dal rispetto delle disposizioni normative d’emergenza emanate in questi giorni.

Questo il testo della norma in esame:

Art. 91 (Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici) 1. All’articolo 3 del DL 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.“. []”.

Anche alla luce dell’aggiornamento normativo appare difficile sostenere il diritto del conduttore ad un’automatica riduzione del canone. A questo punto, pertanto, qualora si voglia perseguire quel risultato non rimarrà che:

1) chiedere la riduzione del canone in via stragiudiziale;

2) nel caso di rifiuto del locatore, il conduttore potrà convocare lo stesso in mediazione;

3) nel caso di fallimento della mediazione, non rimane che la via giudiziale sostenendo una delle ipotesi più sopra formulate (ossia l’impossibilità parziale sopravvenuta, l’eccessiva onerosità sopravvenuta e la impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione dovuta alla impossibilità di svolgere la propria attività per causa non dovuta ad alcuna delle parti).

Clausole da inserire in un contratto stipulato in situazioni di emergenza: Covid-19

Come abbiamo visto nel precedente articolo (link) tra i molteplici effetti dell’emergenza sanitaria da Coronavirus si vedono anche quelli di incidere sulla capacità delle aziende di adempiere in modo corretto alle proprie obbligazioni contrattuali.

Le soluzioni giuridiche a tale difficoltà di adempimenti si potranno trovare nell’ordinamento interno ovvero, in caso di compravendita internazionale, dalle fonti che disciplinano la materia, laddove prevedono le conseguenze in caso di eventi eccezionali che, come abbiamo visto, possono definirsi all’interno del concetto di “eventi straordinari e imprevedibili”.

Per quanto riguarda l’ordinamento internazionale se ne tratta in due fonti:

  • Nella Convenzione di Vienna relativa alla vendita internazionale di beni mobili che all’art. 79 recita espressamente quanto segue: “Una parte non è responsabile dell’inadempienza di uno qualsiasi dei suoi obblighi se prova che tale inadempienza è dovuta ad un impedimento indipendente dalla sua volontà e non ci si poteva ragionevolmente attendere che essa lo prendesse in considerazione al momento della conclusione del contratto, che lo prevedesse o lo superasse, o che ne prevedesse o ne superasse le conseguenze”.
  • Da parte della Camera di Commercio internazionale, che ha redatto:
  • una clausola standard di forza maggiore “ICC Force Majeure Clause 2003”. Disciplina gran parte delle problematiche che si presentano nel contesto della forza maggiore: queste problematiche comprendono tutte quelle circostanze non imputabili alle parti che comportano l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni contrattuali, come ad esempio scioperi, calamità naturali, guerre, etc..; in questi casi la parte che non può dare esecuzione al contratto per il verificarsi di una causa maggiore, non è ritenuta responsabile.
  • la hardship clause “ICC Force Hardship Clause 2003” che disciplina le ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Il termine hardshipviene tradotto come “disagio”, “avversità”.

La hardship clause e la clausola di forza maggiore sono diverse.

A differenza della forza maggiore la hardship non è un concetto giuridico, ma un’espressione descrittiva utilizzata per indicare un evento che accade ad una delle parti. Non essendo un concetto giuridico con un significato ben specifico l’hardship può essere definito ampiamente o restrittivamente, a differenza della forza maggiore che è una clausola ampia e ben definita.

In ogni caso, presente una delle clausole sopra citate, qualora si verifichi l’evento impossibilitante, la parte che lo invoca dovrà notificarlo alla controparte fornendo prova che l’evento verificatosi corrisponda a quanto previsto dal contratto.

Le suddette clausole possono essere “superate” se le parti chiedono l’inserimento di una clausola ad hoc.

Nei contratti di matrice anglosassone è già usuale, ad esempio, l’inserimento di clausole “material adverse event“, evento avverso, che preveda la possibilità di coprire le emergenze straordinarie.

Talune clausole applicabili a tali situazioni di impossibilità assoluta della prestazione vedono il conseguente esonero della parte inadempiente da responsabilità risarcitorie per il ritardo o la definitiva mancata prestazione, oppure potranno avere uno spettro di operatività più ampio, operando rebus sic stantibus: si farà infatti luogo alla risoluzione del contratto nel caso in cui, per un mutamento della situazione di fatto esistente al momento della stipulazione, la prestazione di una delle parti divenga eccessivamente onerosa o, se ciò è previsto dalla clausola, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente gravosa potrà esigere una rinegoziazione o un adeguamento delle condizioni del contratto, in alternativa allo scioglimento dello stesso. Tutto questo, mediante la definizione in via pattizia.

Ma iniziano a farsi vedere, anche nelle compravendite disciplinate dal diritto italiano e concluse in questi giorni di incertezza economica, le “clausole Coronavirus” inserite ad hoc dalle parti per cautelarsi.

I primi esempi riguardano la possibilità di rivedere le condizioni contrattuali originariamente pattuite se la situazione di emergenza dovesse perdurare o definitivamente incidere sulla opportunità della operazione commerciale anche nel momento in cui la situazione di emergenza sarà rientrata.

Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi.

In tempi di estrema incertezza nella vita privata a farla da padrone deve essere una corretta gestione degli impegni economici che ognuno di noi ha assunto.

Molti di noi si saranno trovati a far fronte ad una impossibilità o comunque ad una estrema difficoltà di adempimento delle obbligazioni commerciali già assunte, all’interno del territorio italiano.

Questo diventa maggiormente attuale laddove, in questi giorni, sono stati assunti numerosi provvedimenti normativi d’emergenza (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che limitano l’attività economica nel nostro Paese e nei quali, pertanto, l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi delle obbligazioni assunte.

Entrando nel merito

In via preliminare si deve evidenziare che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., la mancata esecuzione di una prestazione costituisce “inadempimento contrattuale” tutte le volte in cui per l’obbligato la prestazione sia soggettivamente possibile: cioè in tutti i casi in cui con l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, potrei comunque procedere all’adempimento. La difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.

Perciò il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” o di forza maggiore, la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che “da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo” (cfr Cass. Civ., Sent. n. 15712 del 08/11/2002).

Possono i decreti emergenziali emanati dal governo giustificare l’inadempimento?

L’ordinamento italiano non prevede espressamente una definizione di “forza maggiore”; solo il Codice del Turismo all’art. 41 co. 4 tratta così il caso: “In caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il viaggiatore ha diritto di recedere dal contratto, prima dell’inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto a un indennizzo supplementare”.

Il codice civile, tratta la materia rispettivamente agli artt. 1256 e 1467.

L’art. 1256 c.c. prevede il caso in cui via una impossibilità sopravvenuta che generi un ritardo o una totale impossibilità nella esecuzione della prestazione.

Qualora ricorra tale situazione, il debitore non sarà responsabile dei danni che controparte possa subire per effetto del ritardo nell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c., finché perduri la situazione di impossibilità.

Nel caso in cui l’impossibilità diventi definitiva, o comunque duri fino a quando l’interesse che la prestazione venga in concreto realizzata venga meno (ad esempio, le merci che avrebbero dovuto essere consegnate non siano più utili), l’obbligazione si estingue, con conseguente scioglimento del vincolo contrattuale (artt. 1256 e 1463 c.c.).

L’art. 1467 c.c., previsto nei casi di contratti a prestazioni continuate o periodiche, ossia differite, prevede il caso in cui a causa di eventi straordinari e imprevedibili la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa.

In questo caso, come vedremo, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa potrà chiedere la risoluzione del contratto.

Quali cause possiamo invocare?

1) Impossibilità sopravvenuta definitiva o temporanea di cui all’art. 1256 c.c.

Sotto il profilo giuridico i recenti provvedimenti emergenziali del Governo (DPCM) possono incidere sulla capacità di eseguire le prestazioni contrattuali, determinando l’impossibilità sopravvenuta di adempiere, ai sensi dell’art. 1256 c.c.

Ciò avviene in quanto rientrano nella fattispecie del c.d. “factum principis”. Quest’ultima rappresenta una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati.

Secondo giurisprudenza consolidata, gli ordini o i divieti emanati dalle autorità sono suscettibili di determinare l’impossibilità della prestazione qualora:

  • gli stessi siano del tutto estranei alla volontà dell’obbligato (Cass. Civ., n. 21973 del 19/10/2007);
  • non siano ragionevolmente prevedibili, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione ( Civ., Sent. n. 2059 del 23/02/2000);
  • il debitore abbia sperimentato tutte le ragionevoli possibilità per adempiere regolarmente (Cass. Civ., Sent. n. 14915 del 8/06/2018; Cass. Civ., Sent. n. 11914 del 10/06/2016).

Occorre, dunque, valutare se la durata delle misure restrittive adottate per limitare la diffusione del Coronavirus sia tale da estinguere l’obbligazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1256 c.c., fermo restando che il debitore sarà tenuto ad eseguire la prestazione nel momento in cui la causa dell’impossibilità dovesse cessare – indipendentemente da un suo diverso interesse economico – sempre che la stessa sia ancora utile a controparte.

2) Eccessiva onerosità della prestazione

Diverso è, invece, il caso in cui la situazione emergenziale e i relativi divieti governativi rendano una prestazione contrattuale non impossibile, ma eccessivamente onerosa.

Ai sensi dell’art. 1467 c.c., nei contratti a esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti è ancora possibile, ma è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, la parte che deve eseguire tale prestazione può chiedere la risoluzione del contratto (salvo che tale eccessiva onerosità non rientri nel normale rischio cui è soggetta la prestazione).

Contrariamente a quanto previsto per l’impossibilità sopravvenuta, l’eccessiva onerosità non costituisce causa di estinzione di diritto dell’obbligazione, ma conferisce al debitore la facoltà di chiedere al giudice la risoluzione del contratto. La richiesta potrà avere come conseguenza la risposta, che è nel potere dell’altra parte, di non risolvere il contratto richiedendo una “riduzione” dello stesso per riportare in equilibrio le due prestazioni.

Il criterio di straordinarietà e imprevedibilità dell’avvenimento che legittima la richiesta di risoluzione del contratto è oggetto di attenta valutazione della giurisprudenza, che ha definito straordinario l’avvenimento che non si ripete con frequenza e con regolarità nel tempo, e imprevedibile l’evento che ragionevolmente non si prevede e di cui non si conoscono gli effetti. L’evento straordinario presenta quindi le caratteristiche di straordinarietà a seguito di una valutazione oggettiva che:

  • sia dovuta ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili (e sotto questo profilo i provvedimenti governativi per l’emergenza sanitaria rientrano in tale ipotesi);
  • imponga all’obbligato un sacrificio economico che eccede il normale rischio del contratto.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre dunque valutare, caso per caso, se l’evento straordinario e imprevedibile costituito dall’emergenza sanitaria e i conseguenti provvedimenti restrittivi determinino un aggravio patrimoniale per il soggetto obbligato tale da alterare l’originario rapporto contrattuale, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

In conclusione

Il soggetto la cui attività abbia in qualche modo risentito dei provvedimenti normativi disposti a tutela dell’emergenza sanitaria del Coronavirus dovrà, per prima cosa, verificare se siano o meno presenti, nel relativo contratto, specifiche disposizioni che prevedano ipotesi di “cause non imputabili al debitore” (o di forza maggiore) o di eccessiva onerosità sopravvenuta ed eventuali conseguenze giuridiche.

Successivamente si dovrà passare alla determinazione, in concreto, degli effetti derivanti dall’impossibilità temporanea o definitiva della prestazione o dal sopravvenuto disequilibrio contrattuale, per procedere secondo quanto determinato dalla disciplina civilistica.