Stato di Agitazione Proclamato dall’Ordine degli Avvocati di Belluno

Il 29 aprile 2024, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Belluno ha ufficialmente proclamato lo stato di agitazione, rispondendo alla grave carenza di personale che affligge il Tribunale e la Procura di Belluno. Questo passo drastico sottolinea un problema sistemico che rischia di compromettere non solo l’efficienza, ma anche l’equità del sistema giudiziario locale.

La decisione è stata presa all’unanimità durante una riunione straordinaria, riflettendo l’urgenza e la gravità della situazione. Il personale amministrativo e i magistrati del Tribunale e della Procura di Belluno sono al limite, lavorando in condizioni di insostenibilità che, secondo il Consiglio, “non sono ulteriormente tollerabili.” L’aggravarsi delle condizioni lavorative ha portato a un disagio palpabile tra gli utenti dei servizi giudiziari e ha messo sotto pressione gli avvocati e il personale amministrativo, sollecitando un impegno quotidiano che supera la normale capacità operativa. Questo stato di fatto non solo rallenta il lavoro quotidiano, ma rischia anche di influenzare negativamente la qualità della giustizia erogata. In risposta, l’Ordine degli Avvocati di Belluno ha invocato l’adozione di iniziative urgenti per sensibilizzare le istituzioni e la cittadinanza sull’importanza di trovare soluzioni concrete e sostenibili. È evidente che il problema richiede una collaborazione estesa non solo a livello locale ma anche regionale, coinvolgendo entità come la Presidenza del Tribunale di Belluno, la Corte d’Appello di Venezia, e altre associazioni legali territoriali.

La proclamazione dello stato di agitazione è un chiaro segnale che le misure attuali sono insufficienti e che è tempo di agire decisamente per garantire il rispetto dei diritti di tutti i cittadini a un processo equo e tempestivo. L’Ordine degli Avvocati di Belluno ora attende una risposta concreta dalle autorità competenti, sperando che questo stato di agitazione funga da catalizzatore per un cambiamento significativo e duraturo. Nel frattempo, resta chiaro che la tenuta del sistema giudiziario di Belluno è di interesse pubblico e richiede un’attenzione immediata. In questa fase critica, è fondamentale che ogni parte interessata collabori per trovare soluzioni pratiche che possano alleviare il carico di lavoro e migliorare le condizioni di lavoro del personale giudiziario, assicurando così l’efficienza e l’integrità del servizio di giustizia.

Corte di cassazione, Sezione 1 Civile, ordinanza del 27 luglio 2023, n. 22874

La normativa

L’articolo 126-bis del Codice della Strada (cds) riguarda l’obbligo del proprietario di un veicolo di comunicare i dati del conducente in caso di violazione delle norme del codice della strada. Questa norma è stata introdotta per poter identificare e sanzionare il conducente responsabile di una determinata infrazione, in particolare quando il conducente al momento dell’infrazione non è stato fermato e identificato.

Le principali disposizioni dell’articolo 126-bis del Codice della Strada sono:

  • Obbligo di Comunicazione: Il proprietario del veicolo è tenuto a comunicare all’organo che ha accertato la violazione i dati identificativi e la copia della patente di guida del conducente al momento della commessa violazione, se diverso dal proprietario.
  • Termini: La comunicazione deve essere effettuata entro 60 giorni dalla data di notifica del verbale di contestazione.
  • Sanzione: Nel caso in cui il proprietario ometta di comunicare i dati del conducente o fornisca dati falsi, è prevista una sanzione pecuniaria. Il conducente, se identificato successivamente, è sanzionato per la violazione originaria, mentre il proprietario è sanzionato per la mancata comunicazione o per la comunicazione di dati falsi.
  • Punti dalla Patente: Oltre alla sanzione pecuniaria, è prevista anche la decurtazione di punti dalla patente di guida del proprietario del veicolo.

La decisione

L’ordinanza emessa dalla Corte di cassazione, ha ad oggetto la disciplina applicabile alla violazione dell’art. 126 bis del codice della strada, la quale riguarda la mancata comunicazione dei dati del conducente entro 60 giorni dalla notifica del verbale di contestazione.

La vicenda ha avuto origine quando un cittadino ha ricevuto una contravvenzione dal Comune per non aver comunicato il nome del conducente responsabile di una violazione dell’art. 142 del codice della strada, relativo al superamento del limite di velocità. Inizialmente, il Giudice di Pace di Ancona ha accolto l’opposizione annullando il verbale. Tuttavia, successivamente, il Tribunale in appello ha rovesciato questa decisione, rigettando l’opposizione.

L’utente della strada ha quindi proposto un ricorso per cassazione, sostenendo che il verbale era illegittimo e che aveva fornito i dati della persona alla guida al momento della violazione, oltre ad altri motivi.

La Corte di cassazione ha evidenziato un contrasto nella giurisprudenza relativo alla relazione tra la violazione dell’art. 126 bis e il verbale originale di contestazione. Da un lato, alcune decisioni precedenti sostengono che la sanzione per la mancata comunicazione dei dati del conducente rimane valida anche se il verbale originale viene annullato. Dall’altro, ci sono decisioni che suggeriscono il contrario.

Pertanto essendosi in presenza di un contrasto interno alla giurisprudenza della sezione si è reso opportuno il rinvio della causa alla pubblica udienza per l’approfondimento della questione.

Direttiva Omnibus

L’Italia con il Decreto Legislativo 7 marzo 2023 n. 26 (Attuazione della direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2019, che modifica la direttiva 93/13/CEE del Consiglio e le direttive 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori. GU Serie Generale n. 66 del 18-03-2023) ha recepito la Direttiva Omnibus (UE) 2019/2161, che è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale ed entrerà in vigore il 2 aprile 2023, la quale rappresenta un notevole cambiamento per le vendite online.

Tale riforma rappresenta un rafforzamento della protezione dei consumatori modificando quattro direttive esistenti: la Direttiva 93/13/CEE sui contratti dei consumatori, la Direttiva 98/6/CE sulla protezione dei consumatori contro le indicazioni di prezzo sui prodotti, la direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali e la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori.

Le modifiche hanno riguardo in particolare le pratiche commerciali scorrette, la pubblicità ingannevole e la tutela del consumatore, ed in particolare hanno ad oggetto: i) l’indicazione dei prezzi; ii) i controlli da attuare per evitare false recensioni; iii) trasparenza nel ranking e nel posizionamento dei beni e servizi offerti; iv) la vendita di prodotti da parte di non professionisti; v) il diritto di recesso; vi) i rimedi a disposizione dei consumatori per contestare la condotta dei professionisti e le sanzioni che sono aumentate.

Si tratta in definitiva di ulteriore passo in avanti per la tutela dei consumatori ad integrazione del Codice del Consumo (già aggiornato lo scorso anno).

Può sussistere la responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da Covid-19 di un suo dipendente?

La risposta al quesito va data in termini astrattamente positivi: il fatto che un lavoratore si ammali di Covid-19, nello svolgimento delle proprie mansioni professionali, può dare luogo a un’incriminazione per omicidio o lesioni (a seconda che la malattia abbia un esito letale o meno), verosimilmente in forma colposa, con l’aggravante della violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

È necessario però fare alcune considerazioni e questo per far correttamente comprendere il rischio a cui è esposto il Datore di Lavoro in tale ambito.

Affinché a un soggetto possano essere mosse le contestazioni (nel caso del Covid-19 in forma omissiva, per non aver impedito il contagio) occorrono tre elementi:

  • dimostrare come proprio su tale persona gravasse una posizione di garanzia relativa alla tutela della salute del lavoratore: il datore di lavoro è indubbiamente gravato dalla disciplina di quanto previsto, fra l’altro, dall’art. 2087 c.c. e normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
  • appurare – oltre ogni ragionevole dubbio – come fra la condotta omissiva e l’infezione vi sia un nesso di causalità: l’accertamento di questo aspetto rappresenta, nel caso che ci interessa, difficilissimo.

Basti pensare, soltanto, alle innumerevoli possibilità di contrarre il virus nei vari luoghi in cui ogni persona vive la propria vita nel contempo al periodo di incubazione del virus e che sono oltre al luogo di lavoro altri luoghi in cui è possibile contagiarsi: risulta quasi impossibile riuscire a dimostrare che il lavoratore si sia infettato proprio nello svolgimento dell’attività lavorativa.

  • verificare che vi sia la possibilità di identificare una responsabilità quantomeno per colpa: nel caso qui di interesse, le specifiche misure da adottarsi in ambito lavorativo sono contenute in una serie di protocolli stipulati direttamente fra le parti sociali la cui osservanza è stata imposta a tutti i datori di lavoro.[1] Il rispetto di tali disposizioni, non azzera il rischio di contagio ma svolge una riduzione dello stesso, nei limiti in cui può essere richiesto che il datore di lavoro attivi la sua posizione di garanzia, impedendo che al soggetto possa essere mosso un rimprovero per colpa.

È ipotizzabile concludere pertanto (e salve ipotesi particolari) che i rischi penali correlati alle infezioni da coronavirus in ambito lavorativo siano contenuti.

Il caos informativo

Nel corso di tutta la crisi sanitaria vi è stato un susseguirsi di atti normativi emanati da una molteplicità di fonti (Parlamento, Governo, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri, Regioni, Enti Locali) che hanno creato un certo disorientamento nell’opinione pubblica. Caso emblematico è accaduto con l’art. 42, co. 2 DL 18/20205[2] (c.d. decreto Cura Italia) il quale, tra le altre cose, ha stabilito che l’infezione da Covid-19 contratta “in occasione di lavoro” costituisce infortunio sul lavoro e dà quindi diritto all’indennizzo INAIL.

Attorno a questo articolo si è sviluppato un intenso dibattito circa il pericolo che il riconoscimento come infortunio anziché come malattia dell’infezione da Covid-19 potesse fungere da riconoscimento implicito della ammissibilità della responsabilità penale del datore di lavoro per morte (art. 589 c.p.) o lesioni (art. 590 c.p.) dei propri dipendenti a causa del virus.

Da qui la pressante richiesta al legislatore di porre un rimedio, invocando uno scudo penale volto a tutelare da tali contestazioni gli imprenditori.

Lo scudo penale per i datori di lavoro e la sua effettiva utilità

Il legislatore, nonostante le precedenti argomentazioni, è in ogni caso intervenuto normativamente con questo testo (approvato dal Senato il 5 giugno 2020): “1. Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Dalle argomentazioni sopra esposte si comprende già come tale intervento non sia di alcuna utilità, in quanto il corretto assolvimento degli obblighi prevenzionistici esclude già la colpa e, quindi, la responsabilità penale del datore di lavoro. Per il resto trova applicazione in ogni caso la disciplina penalistica.

D’altronde sul punto era già intervenuto a chiarimento l’INAIL (il 15.05) con il commento: “L’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro ove l’INAIL specificava: “Il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa. In riferimento al dibattito in corso sui profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro per le infezioni da Covid-19 dei lavoratori per motivi professionali, è utile precisare che dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro.”

In ogni caso è bene evidenziare che le preoccupazioni, aldilà delle derive di mera propaganda, sono del tutto comprensibili e derivano da alcune distorsioni che la giurisprudenza in materia di responsabilità per violazioni della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ha avuto negli ultimi anni, distorsioni sulle quali sarebbe opportuno riflettere ed intervenire.

[1] In particolare, i Protocolli del 14 marzo e del 24 aprile 2020 sono stati recepiti nel D.P.C.M. del 26 aprile 2020, che ne ha imposto l’osservanza.

[2] Art. 42, co. 2 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante “Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019”. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

Videosorveglianza in condominio: quando è legittima

Accade spesso nella vita quotidiana che i proprietari di singole unità immobiliari condominiali decidano di installare sistemi di videosorveglianza finalizzati alla protezione della propria abitazione.

È intuibile come tale scelta possa creare dei dubbi circa la legittimità delle riprese così effettuate, specialmente nel caso in cui l’angolo visuale delle telecamere private non inquadri esclusivamente l’abitazione dell’interessato ma anche porzioni di immobili altrui o zone comuni di passaggio, come le scale condominiali o il pianerottolo. Infatti, l’attività di raccolta di informazioni personali di soggetti terzi compiuta attraverso le telecamere, di regola, dovrebbe essere svolta nei limiti e con le modalità imposte dalla normativa vigente in tema di protezione dei dati personali.

Al riguardo, è opportuno sottolineare come il trattamento dei dati personali effettuato mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza non formi oggetto di legislazione specifica. Si applicano, pertanto, le disposizioni generali in tema di protezione dei dati personali: in particolare, la materia della videosorveglianza privata risulta attualmente disciplinata dal Codice della privacy (D. Lgs. 196/2003), così come modificato dall’entrata in vigore del G.D.P.R. (General Data Protection Regulation – Regolamento UE 2016/679), nonché da un provvedimento generale adottato nel 2010 del Garante della privacy e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 99 del 29.04.2010.

Il combinato disposto delle norme sopra citate ha creato un intricato sistema di tutele a beneficio della riservatezza dei singoli soggetti, i quali hanno diritto di conoscere come verranno raccolti e utilizzati i dati personali a loro riferibili. È quindi evidente che, nel caso in cui tali norme dovessero trovare effettiva applicazione anche all’attività di videosorveglianza privata, il soggetto interessato al posizionamento delle telecamere sarebbe tenuto a rispettare gli imponenti obblighi informativi e di conservazione dei dati imposti dalla legge, con cospicuo dispendio di tempo ed energie.

Se, da un lato, è indubbio che la ripresa di immagini a fini di sorveglianza rientri nella categoria di attività classificabili come trattamento di dati personali (e, quindi, disciplinate dalle norme in precedenza indicate), dall’altro lato è parimenti pacifico come le disposizioni poste a tutela della privacy non trovino applicazione nei casi in cui il trattamento dei dati personali venga effettuato da una persona fisica per l’esercizio di attività esclusivamente personale o domestico.

Infatti, l’art. 2 co. 2 lett. c) del Regolamento UE 2016/679 (G.D.P.R.) esclude dal proprio ambito di applicazione tutti i casi in cui la raccolta di dati avvenga per finalità strettamente personali, ovvero senza una connessione con attività commerciali o professionali (Considerando n. 18 Regolamento UE 2016/679).

Parallelamente, l’art. 6.1 regolamento 2010 del Garante della Privacy chiarisce che il Codice della privacy non debba trovare applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi.

Nel concetto di trattamento dati a fini personali, specifica il Garante, può rientrare, ad esempio, l’utilizzo di strumenti di videosorveglianza idonei ad identificare coloro che si accingono ad entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati ed all´interno di condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box).

Tuttavia, benché non trovi applicazione né la disciplina del Codice né del G.D.P.R., l’utilizzo di strumenti di ripresa visiva o sonora finalizzato all’indebito ottenimento di notizie o immagini attinenti alla vita privata delle persone integra gli estremi del reato di interferenze illecite nella vita privata, disciplinato e punti ai sensi dell’art. 615-bis c.p.

Al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), il Garante della privacy, nella medesima disposizione sopra citata, ha ricordato come sia comunque opportuno che l´angolo visuale delle riprese sia limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio antistanti l´accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l´abitazione di altri condomini (art. 6.1 co. 2).

Tuttavia, affinché le riprese della videosorveglianza possano integrare gli estremi della condotta punibile ai sensi dell’art. 615-bis c.p., è necessario che l’azione ripresa, svolgendosi in luoghi di privata dimora, non possa essere liberamente osservata da estranei se non ricorrendo a particolari accorgimenti (ad esempio cimici, registratori o telecamere nascoste). In tal caso, infatti, viene meno l’esigenza di tutela della vita privata della persona, la quale, compiendo determinate attività in luoghi esposti alla vista di estranei, accetta il rischio di veder compresso il proprio diritto alla riservatezza.

Di conseguenza, le videoriprese aventi ad oggetto comportamenti tenuti in spazi di pertinenza della abitazione di taluno ma di fatto non protetti dalla vista degli estranei, come quelli tenuti in prossimità di una finestra aperta o sulle scale condominiali, possono essere equiparate a registrazioni effettuate in luoghi esposti al pubblico e, pertanto, non sono idonee ad integrare gli estremi della condotta punibile ai sensi dell’art. 615-bis c.p.

La registrazione degli accordi di riduzione del canone di locazione

L’art. 62 co. 1 D.L. 17.03.2020 n. 18 prevede la sospensione degli adempimenti tributari diversi dai versamenti nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020 e il 31 maggio 2020, con la conseguenza che l’adempimento della registrazione degli atti risulta sospeso.

Per quanto riguarda gli accordi di riduzione del canone di locazione, non sono soggetti a registrazione in termine fisso, ma rientrano tra gli atti che possono essere soggetti a registrazione volontaria.

In particolare la registrazione volontaria è opportuna per due ordini di ragioni:

– rende opponibile il contenuto dell’accordo, già produttivo di effetti tra le parti, ai terzi

– in particolare, rende opponibile l’accordo all’amministrazione (in specie, l’Agenzia delle Entrate), ai fini del pagamento delle relative imposte sulla base del nuovo canone ridotto.

Nello specifico, l’atto con il quale le parti dispongono esclusivamente la riduzione del canone di un contratto di locazione ancora in essere è esente dalle imposte di registro e di bollo.

Pertanto, nello stato di emergenza sanitaria in cui viviamo, una delle parti può richiedere la registrazione dell’accordo di riduzione del canone presso l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate dove è registrato il contratto originario, producendo tramite e-mail o PEC la documentazione richiesta dall’Agenzia medesima sul proprio portale.

Successivamente, ad emergenza sanitaria rientrata, sarà necessario consegnare la documentazione in originale.

Per quanto riguarda il profilo fiscale dell’accordo registrato, nel caso in cui il contratto originario non sia in regime di cedolare secca, gli effetti della riduzione del canone sulla determinazione della base imponibile da assoggettare a tassazione, ai fini dell’imposta di registro, decorreranno dall’annualità successiva a quella in cui è stata concordato il nuovo canone.

Risulta pertanto fondamentale redigere un accordo chiaro e ben strutturato, al fine di evitare equivoci vuoi tra le parti, vuoi con l’Agenzia delle Entrate.

Coronavirus: il ruolo delle circolari amministrative nella gestione dell’emergenza

Com’è noto, la rapida diffusione del Covid-19 ha richiesto l’emanazione di una serie di norme giuridiche urgenti, destinate al contenimento degli effetti dannosi della pandemia.

La legislazione emergenziale adottata dal Governo è composta da alcuni decreti-legge e da vari decreti ministeriali attuativi (per maggiori informazioni clicca qui) i quali, a causa delle tempistiche ristrette imposte dall’aggravarsi della pandemia, si sono spesso posti in contraddizione tra loro, dando vita a gravi incertezze applicative della normativa vigente.

Per questo motivo, i singoli ministeri coinvolti nella gestione dell’epidemia e delle conseguenze sfavorevoli a questa connesse (come il Ministero della Salute o il Ministero dell’Interno), nel tentativo di risolvere le incoerenze contenute nei provvedimenti governativi e di giungere ad un’applicazione omogenea della legislazione d’emergenza, si sono avvalsi di un prezioso strumento per coordinare l’attività dei rispettivi uffici amministrativi: le circolari amministrative.

Le circolari amministrative vengono tradizionalmente definite come atti di un’autorità superiore con cui viene regolata la condotta di autorità inferiore nello svolgimento dei propri doveri d’ufficio. Non hanno quindi carattere normativo (per saperne di più sulle norme giuridiche clicca qui), ma rappresentano lo strumento mediante il quale l’amministrazione fornisce indicazioni in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi i propri dipendenti ed i propri uffici. In altre parole, le circolari amministrative contengono le istruzioni che il Ministro dà agli uffici amministrativi, sia centrali che periferici, al fine di assicurare l’applicazione omogenea della normativa vigente.

La peculiarità di tali provvedimenti è quindi da individuarsi nella loro efficacia limitata, dato che gli unici destinatari delle disposizioni in esse contenute possono essere solo gli uffici amministrativi e non, come nel caso di atti normativi, i singoli consociati.

Tanto premesso, osservandone più da vicino le caratteristiche strutturali, è possibile classificare le tipologie più frequentemente utilizzate in tre macro-categorie descrittive.

Le circolari amministrative, in primo luogo, possono essere meramente informative, assimilabili a bollettini e newsletter, e diffuse all’interno degli uffici della pubblica amministrazione per fornire notizie e aggiornamenti di varia natura. All’evidenza, alle circolari informative non può essere riconosciuto alcun valore giuridico.

Altre circolari, invece, sono finalizzate a chiarire l’operatività di norme giuridiche nuove: si tratta delle cosiddette circolari interpretative.

Le circolari interpretative hanno l’unico scopo di garantire l’applicazione uniforme della legge, indicando agli uffici competenti come applicare determinate norme giuridiche. Tale tipologia di atto amministrativo non ha efficacia vincolante, data la sua assimilabilità ad un’opinione interpretativa della legge fornita da un soggetto autorevole. Pertanto, è fuori di dubbio che non possano pertanto vincolare al loro rispetto soggetti esterni alla pubblica amministrazione, quali, ad esempio, i giudici.

Mentre le circolari informative ed interpretative, come visto, non producono in ogni caso effetti verso l’esterno, le cosiddette circolari normative sono idonee a produrre effetti riflessi anche al di fuori della pubblica amministrazione: indicano infatti alla pubblica amministrazione con quali modalità esercitare un potere attribuitole dalla legge, di fatto influenzando l’emissione e il contenuto dei singoli provvedimenti amministrativi.

In tale ultima ipotesi, l’efficacia esterna della circolare normativa, cioè verso i non appartenenti alla pubblica amministrazione, è comunque solo indiretta e mediata, nella misura in cui gli organi amministrativi destinatari di tali atti ne tengano conto per l’emanazione di atti incidenti la sfera giuridica soggettiva di terzi.

In ogni caso, la denominazione non deve trarre in inganno: le circolari normative non sono considerate formalmente fonti di diritto dall’ordinamento generale e, pertanto, non possono incidere direttamente su diritti, obblighi e, più in generale, sulle posizioni giuridiche soggettive delle persone.

Ciò significa che il provvedimento amministrativo (ad esempio una sanzione) viene emesso in forza di una circolare normativa contrastante con la legge, non potrà che essere dichiarato illegittimo.

Emergenza coronavirus: il valore legale delle F.A.Q.

Con l’acuirsi dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19, il Governo italiano ha adottato una serie cospicua di misure urgenti al fine di limitare gli spostamenti della popolazione e, di conseguenza, contenere il contagio. Nello specifico, dal 31.01.2020 ad oggi sono stati emanati ben 22 provvedimenti, di cui 19 ancora in vigore.

Se, da un lato, il rapido diffondersi della pandemia ha richiesto una prontezza di rilessi inusuale per la pubblica amministrazione, dall’altro lato l’emanazione compulsiva di nuove disposizioni, non sempre chiare e coerenti tra loro, ha costituito il substrato ideale per la proliferazione di una fitta giungla normativa, all’interno della quale è difficile orientarsi sia per i professionisti del settore che per i cittadini.

Per questa ragione, il Governo e le singole Regioni hanno dedicato un’apposita sezione dei propri siti istituzionali a fornire risposte concrete alle questioni interpretative più di frequente sollevate dai destinatari della legislazione emergenziale (le cosiddette F.A.Q., “Frequently Asked Questions”), in modo da facilitare la comprensione della normativa vigente.

Considerato che le F.A.Q., all’oggi, costituiscono lo strumento preferenziale attraverso cui i cittadini orientano il proprio comportamento sia pubblico che privato, è legittimo interrogarsi su quale sia il valore legale a queste riconosciuto.

Nello specifico, appare opportuno chiedersi se il contenuto delle F.A.Q. possa vincolare l’attività della pubblica amministrazione, impedendo (o determinando) l’irrogazione di sanzioni.

L’analisi del problema non può che prendere le mosse da alcune considerazioni generali in tema di fonti del diritto, generalmente definibili come i fatti o gli atti abilitati dall’ordinamento a produrre norme giuridiche.

A loro volta, le norme giuridiche possono essere qualificate come comandi generali ed astratti, rivolti a tutti i consociati e presidiati da apposita sanzione, con i quali si impone di tenere (o non tenere) una determinata condotta.

Appare dunque evidente come il potere di emanare norme giuridiche, se abusato, possa pregiudicare gravemente la vita pubblica e privata dei singoli.

Proprio per tale ragione, la Costituzione italiana, che riconosce e cristallizza quale valore supremo dell’ordinamento la sovranità popolare (art. 1 Cost.), attribuisce la prerogativa della produzione del diritto all’unico organo costituzionale direttamente eletto dai cittadini e, quindi, rappresentativo della volontà popolare: il Parlamento.

Per contro, al Governo spetta il cosiddetto potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi all’interno dello Stato, avvalendosi della forza pubblica per garantirne il rispetto.

Tuttavia, non è realistico pensare che l’intera vita normativa del Paese possa essere gestita esclusivamente dal Parlamento: infatti, il meccanismo previsto dalla Costituzione per l’adozione di una legge è estremamente lento e farraginoso, tanto da essere considerato sostanzialmente impraticabile in situazioni di emergenza.

Al contrario, il Governo esercita le proprie prerogative costituzionali in modo più snello e rapido, al di fuori delle logiche e dei vincoli tipici dell’iter legislativo parlamentare. Già la Costituzione ha quindi previsto la possibilità che sia il Governo stesso ad adottare direttamente atti con forza di legge: il decreto legislativo e il decreto-legge.

In particolare, il dettato costituzionale ha individuato proprio nel decreto-legge lo strumento preferenziale per la gestione di situazioni emergenziali: infatti, il decreto-legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare in casi di straordinaria necessità e urgenza, che entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e che necessita di essere convertito in legge dal Parlamento solo 60 giorni dalla sua pubblicazione, pena la perdita di efficacia delle disposizioni in esso contenute.

È chiaro dunque come il legislatore costituzionale, nel prevedere e disciplinare l’utilizzo del decreto-legge, abbia comunque tentato di garantire il rispetto del principio della sovranità popolare, prevedendo una necessaria ratifica dell’operato del Governo da parte del Parlamento nazionale.

Traendo le somme di quanto sin qui esposto, è possibile classificare una prima categoria di fonti di produzione del diritto: la Costituzione, la legge ordinaria e gli atti aventi forza di legge, in quanto direttamente validate dall’organo parlamentare, possono essere definite come fonti primarie.

Il Governo e le altre autorità pubbliche ben possono creare norme giuridiche vincolanti per mezzo di altri decreti, provvedimenti o altri regolamenti adottati in autonomia, ma la loro validità è subordinata all’esistenza di una fonte primaria che ne legittimi l’emanazione e ne disciplini, più o meno dettagliatamente, il contenuto. Per tale motivo, tali fonti di produzione del diritto vengono usualmente definite come fonti secondarie.

Ciascuno degli atti sopra indicati deve conformarsi a specifici requisiti formali, stabiliti dalla legge per le diverse tipologie di provvedimento (ad esempio, portare la dicitura di “Decreto-Legge” o “Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri”) e deve essere emesso al termine di un procedimento di formazione anch’esso predeterminato dalla legge.

Prevedendo una serie di requisiti formali per l’adozione di determinati provvedimenti, è possibile infatti garantire una maggiore certezza nell’applicazione del diritto.

Tanto premesso, riprendendo la questione iniziale, appare evidente come le F.A.Q. non trovino alcuna collocazione all’interno dello schema descritto. Infatti, non solo queste non vengono emanate all’esito di un procedimento predefinito dalla legge, ma non vengono nemmeno richiamate dalle norme in vigore.

Tuttalpiù, alle F.A.Q. potrebbe essere riconosciuta la mera funzione di illustrazione delle regole già formate, senza alcuna pretesa di vincolatività.

In conclusione, un potenziale contrasto tra le indicazioni contenute nelle F.A.Q. e la normativa in vigore non sarebbe che una lotta impari, non avendo le prime alcun effettivo valore legale.