Coronavirus: il ruolo delle circolari amministrative nella gestione dell’emergenza

Com’è noto, la rapida diffusione del Covid-19 ha richiesto l’emanazione di una serie di norme giuridiche urgenti, destinate al contenimento degli effetti dannosi della pandemia.

La legislazione emergenziale adottata dal Governo è composta da alcuni decreti-legge e da vari decreti ministeriali attuativi (per maggiori informazioni clicca qui) i quali, a causa delle tempistiche ristrette imposte dall’aggravarsi della pandemia, si sono spesso posti in contraddizione tra loro, dando vita a gravi incertezze applicative della normativa vigente.

Per questo motivo, i singoli ministeri coinvolti nella gestione dell’epidemia e delle conseguenze sfavorevoli a questa connesse (come il Ministero della Salute o il Ministero dell’Interno), nel tentativo di risolvere le incoerenze contenute nei provvedimenti governativi e di giungere ad un’applicazione omogenea della legislazione d’emergenza, si sono avvalsi di un prezioso strumento per coordinare l’attività dei rispettivi uffici amministrativi: le circolari amministrative.

Le circolari amministrative vengono tradizionalmente definite come atti di un’autorità superiore con cui viene regolata la condotta di autorità inferiore nello svolgimento dei propri doveri d’ufficio. Non hanno quindi carattere normativo (per saperne di più sulle norme giuridiche clicca qui), ma rappresentano lo strumento mediante il quale l’amministrazione fornisce indicazioni in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi i propri dipendenti ed i propri uffici. In altre parole, le circolari amministrative contengono le istruzioni che il Ministro dà agli uffici amministrativi, sia centrali che periferici, al fine di assicurare l’applicazione omogenea della normativa vigente.

La peculiarità di tali provvedimenti è quindi da individuarsi nella loro efficacia limitata, dato che gli unici destinatari delle disposizioni in esse contenute possono essere solo gli uffici amministrativi e non, come nel caso di atti normativi, i singoli consociati.

Tanto premesso, osservandone più da vicino le caratteristiche strutturali, è possibile classificare le tipologie più frequentemente utilizzate in tre macro-categorie descrittive.

Le circolari amministrative, in primo luogo, possono essere meramente informative, assimilabili a bollettini e newsletter, e diffuse all’interno degli uffici della pubblica amministrazione per fornire notizie e aggiornamenti di varia natura. All’evidenza, alle circolari informative non può essere riconosciuto alcun valore giuridico.

Altre circolari, invece, sono finalizzate a chiarire l’operatività di norme giuridiche nuove: si tratta delle cosiddette circolari interpretative.

Le circolari interpretative hanno l’unico scopo di garantire l’applicazione uniforme della legge, indicando agli uffici competenti come applicare determinate norme giuridiche. Tale tipologia di atto amministrativo non ha efficacia vincolante, data la sua assimilabilità ad un’opinione interpretativa della legge fornita da un soggetto autorevole. Pertanto, è fuori di dubbio che non possano pertanto vincolare al loro rispetto soggetti esterni alla pubblica amministrazione, quali, ad esempio, i giudici.

Mentre le circolari informative ed interpretative, come visto, non producono in ogni caso effetti verso l’esterno, le cosiddette circolari normative sono idonee a produrre effetti riflessi anche al di fuori della pubblica amministrazione: indicano infatti alla pubblica amministrazione con quali modalità esercitare un potere attribuitole dalla legge, di fatto influenzando l’emissione e il contenuto dei singoli provvedimenti amministrativi.

In tale ultima ipotesi, l’efficacia esterna della circolare normativa, cioè verso i non appartenenti alla pubblica amministrazione, è comunque solo indiretta e mediata, nella misura in cui gli organi amministrativi destinatari di tali atti ne tengano conto per l’emanazione di atti incidenti la sfera giuridica soggettiva di terzi.

In ogni caso, la denominazione non deve trarre in inganno: le circolari normative non sono considerate formalmente fonti di diritto dall’ordinamento generale e, pertanto, non possono incidere direttamente su diritti, obblighi e, più in generale, sulle posizioni giuridiche soggettive delle persone.

Ciò significa che il provvedimento amministrativo (ad esempio una sanzione) viene emesso in forza di una circolare normativa contrastante con la legge, non potrà che essere dichiarato illegittimo.

Emergenza coronavirus: il valore legale delle F.A.Q.

Con l’acuirsi dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Covid-19, il Governo italiano ha adottato una serie cospicua di misure urgenti al fine di limitare gli spostamenti della popolazione e, di conseguenza, contenere il contagio. Nello specifico, dal 31.01.2020 ad oggi sono stati emanati ben 22 provvedimenti, di cui 19 ancora in vigore.

Se, da un lato, il rapido diffondersi della pandemia ha richiesto una prontezza di rilessi inusuale per la pubblica amministrazione, dall’altro lato l’emanazione compulsiva di nuove disposizioni, non sempre chiare e coerenti tra loro, ha costituito il substrato ideale per la proliferazione di una fitta giungla normativa, all’interno della quale è difficile orientarsi sia per i professionisti del settore che per i cittadini.

Per questa ragione, il Governo e le singole Regioni hanno dedicato un’apposita sezione dei propri siti istituzionali a fornire risposte concrete alle questioni interpretative più di frequente sollevate dai destinatari della legislazione emergenziale (le cosiddette F.A.Q., “Frequently Asked Questions”), in modo da facilitare la comprensione della normativa vigente.

Considerato che le F.A.Q., all’oggi, costituiscono lo strumento preferenziale attraverso cui i cittadini orientano il proprio comportamento sia pubblico che privato, è legittimo interrogarsi su quale sia il valore legale a queste riconosciuto.

Nello specifico, appare opportuno chiedersi se il contenuto delle F.A.Q. possa vincolare l’attività della pubblica amministrazione, impedendo (o determinando) l’irrogazione di sanzioni.

L’analisi del problema non può che prendere le mosse da alcune considerazioni generali in tema di fonti del diritto, generalmente definibili come i fatti o gli atti abilitati dall’ordinamento a produrre norme giuridiche.

A loro volta, le norme giuridiche possono essere qualificate come comandi generali ed astratti, rivolti a tutti i consociati e presidiati da apposita sanzione, con i quali si impone di tenere (o non tenere) una determinata condotta.

Appare dunque evidente come il potere di emanare norme giuridiche, se abusato, possa pregiudicare gravemente la vita pubblica e privata dei singoli.

Proprio per tale ragione, la Costituzione italiana, che riconosce e cristallizza quale valore supremo dell’ordinamento la sovranità popolare (art. 1 Cost.), attribuisce la prerogativa della produzione del diritto all’unico organo costituzionale direttamente eletto dai cittadini e, quindi, rappresentativo della volontà popolare: il Parlamento.

Per contro, al Governo spetta il cosiddetto potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi all’interno dello Stato, avvalendosi della forza pubblica per garantirne il rispetto.

Tuttavia, non è realistico pensare che l’intera vita normativa del Paese possa essere gestita esclusivamente dal Parlamento: infatti, il meccanismo previsto dalla Costituzione per l’adozione di una legge è estremamente lento e farraginoso, tanto da essere considerato sostanzialmente impraticabile in situazioni di emergenza.

Al contrario, il Governo esercita le proprie prerogative costituzionali in modo più snello e rapido, al di fuori delle logiche e dei vincoli tipici dell’iter legislativo parlamentare. Già la Costituzione ha quindi previsto la possibilità che sia il Governo stesso ad adottare direttamente atti con forza di legge: il decreto legislativo e il decreto-legge.

In particolare, il dettato costituzionale ha individuato proprio nel decreto-legge lo strumento preferenziale per la gestione di situazioni emergenziali: infatti, il decreto-legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare in casi di straordinaria necessità e urgenza, che entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e che necessita di essere convertito in legge dal Parlamento solo 60 giorni dalla sua pubblicazione, pena la perdita di efficacia delle disposizioni in esso contenute.

È chiaro dunque come il legislatore costituzionale, nel prevedere e disciplinare l’utilizzo del decreto-legge, abbia comunque tentato di garantire il rispetto del principio della sovranità popolare, prevedendo una necessaria ratifica dell’operato del Governo da parte del Parlamento nazionale.

Traendo le somme di quanto sin qui esposto, è possibile classificare una prima categoria di fonti di produzione del diritto: la Costituzione, la legge ordinaria e gli atti aventi forza di legge, in quanto direttamente validate dall’organo parlamentare, possono essere definite come fonti primarie.

Il Governo e le altre autorità pubbliche ben possono creare norme giuridiche vincolanti per mezzo di altri decreti, provvedimenti o altri regolamenti adottati in autonomia, ma la loro validità è subordinata all’esistenza di una fonte primaria che ne legittimi l’emanazione e ne disciplini, più o meno dettagliatamente, il contenuto. Per tale motivo, tali fonti di produzione del diritto vengono usualmente definite come fonti secondarie.

Ciascuno degli atti sopra indicati deve conformarsi a specifici requisiti formali, stabiliti dalla legge per le diverse tipologie di provvedimento (ad esempio, portare la dicitura di “Decreto-Legge” o “Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri”) e deve essere emesso al termine di un procedimento di formazione anch’esso predeterminato dalla legge.

Prevedendo una serie di requisiti formali per l’adozione di determinati provvedimenti, è possibile infatti garantire una maggiore certezza nell’applicazione del diritto.

Tanto premesso, riprendendo la questione iniziale, appare evidente come le F.A.Q. non trovino alcuna collocazione all’interno dello schema descritto. Infatti, non solo queste non vengono emanate all’esito di un procedimento predefinito dalla legge, ma non vengono nemmeno richiamate dalle norme in vigore.

Tuttalpiù, alle F.A.Q. potrebbe essere riconosciuta la mera funzione di illustrazione delle regole già formate, senza alcuna pretesa di vincolatività.

In conclusione, un potenziale contrasto tra le indicazioni contenute nelle F.A.Q. e la normativa in vigore non sarebbe che una lotta impari, non avendo le prime alcun effettivo valore legale.

La fase 2, ovvero destreggiarsi tra i D.P.C.M. e le ordinanze regionali

Nel precedente articolo “Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori” (disponibile a questo link) venivano descritte in maniera succinta le previsioni governative che disciplinano la c.d. “fase 2”. Nella news citata ci si è soffermati sul D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale a sua volta prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

La normativa applicabile alle industrie (e non solo) che operano in Veneto (così come in altre Regioni italiane) non è tuttavia unicamente quella di produzione statale, in quanto va considerata anche -e soprattutto- quella di fonte regionale.

Il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, fin dall’inizio dell’emergenza legata al Covid-19, ha emanato una serie di ordinanze volte da un lato a definire il perimetro delle attività non sospese, e dall’altro a disciplinarne in concreto lo svolgimento.

Da ultimo, con ordinanza del 3 maggio, il Presidente della Regione Veneto ha previsto in dettaglio le misure che disciplinano la c.d. fase 2, e lo ha fatto integrando il proprio provvedimento con 4 allegati, ciascuno dei quali rivolti ad un settore specifico:

  1. misure per gli esercizi commerciali;
  2. protocollo condiviso per gli ambienti di lavoro;
  3. protocollo condiviso per i cantieri;
  4. protocollo condiviso per il settore del trasporto e della logistica.

Il provvedimento di cui si discute unitamente ai quattro allegati sopra richiamati, vanno naturalmente letti ed interpretati nel contesto in cui operano, con non poche difficoltà per l’imprenditore il quale deve destreggiarsi nel tentativo di produrre rimanendo competitivo nel mercato, di tutelare la salute dei propri dipendenti, e non da ultimo di evitare di incappare in sanzioni dovute alla scarsa chiarezza delle norme.

Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori

Ormai siamo tutti abituati a sentir parlare della c.d. “fase 2”, ovverosia quell’insieme di norme e previsioni che dovrebbero consentire al Paese di uscire dalla quarantena per ritornare, gradualmente, alla normalità. Ma in concreto quali sono gli obblighi per i commercianti e per le imprese? E, di converso, quali sono i diritti degli avventori e dei dipendenti?

Le norme che disciplinano la “fase 2” sono il D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

È necessario pertanto che ogni imprenditore si adegui alle previsioni di detto protocollo, dotandosi di tutte le misure in esso contenute.

Nello specifico di cosa si tratta? Il Protocollo ha ad oggetto procedure interne, dispositivi individuali di protezione, verifiche del Datore di Lavoro e massima collaborazione con il personale medico, con un occhio di riguardo anche agli aspetti legati alla privacy ed al GDPR (Reg. UE n. 679/2016).

Sono previsti anche degli obblighi di informazione che il Datore di lavoro deve garantire nei confronti dei propri dipendenti, devono essere disciplinate le modalità di accesso in azienda da parte dei lavoratori e dei fornitori esterni, devono essere previste misure di pulizia “straordinarie” ed in ogni caso idonee a limitare le possibilità di contagio, i dipendenti devono essere sensibilizzati ad un’igiene personale effettiva, e devono infine essere gestiti gli spazi comuni ed evitati in generale gli assembramenti.

Da ultimo, l’Azienda deve prevedere come gestire il caso di un dipendente e/o di un fornitore che risulti sintomatico o positivo al Covid-19.

Tutte le previsioni sopra succintamente descritte devono essere effettive e vi deve essere un’adeguata regolamentazione delle stesse, di modo che in caso di richiesta da parte dell’Autorità sia possibile per l’imprenditore darne evidenza anche attraverso l’esibizione di documenti.