Può sussistere la responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da Covid-19 di un suo dipendente?

La risposta al quesito va data in termini astrattamente positivi: il fatto che un lavoratore si ammali di Covid-19, nello svolgimento delle proprie mansioni professionali, può dare luogo a un’incriminazione per omicidio o lesioni (a seconda che la malattia abbia un esito letale o meno), verosimilmente in forma colposa, con l’aggravante della violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

È necessario però fare alcune considerazioni e questo per far correttamente comprendere il rischio a cui è esposto il Datore di Lavoro in tale ambito.

Affinché a un soggetto possano essere mosse le contestazioni (nel caso del Covid-19 in forma omissiva, per non aver impedito il contagio) occorrono tre elementi:

  • dimostrare come proprio su tale persona gravasse una posizione di garanzia relativa alla tutela della salute del lavoratore: il datore di lavoro è indubbiamente gravato dalla disciplina di quanto previsto, fra l’altro, dall’art. 2087 c.c. e normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
  • appurare – oltre ogni ragionevole dubbio – come fra la condotta omissiva e l’infezione vi sia un nesso di causalità: l’accertamento di questo aspetto rappresenta, nel caso che ci interessa, difficilissimo.

Basti pensare, soltanto, alle innumerevoli possibilità di contrarre il virus nei vari luoghi in cui ogni persona vive la propria vita nel contempo al periodo di incubazione del virus e che sono oltre al luogo di lavoro altri luoghi in cui è possibile contagiarsi: risulta quasi impossibile riuscire a dimostrare che il lavoratore si sia infettato proprio nello svolgimento dell’attività lavorativa.

  • verificare che vi sia la possibilità di identificare una responsabilità quantomeno per colpa: nel caso qui di interesse, le specifiche misure da adottarsi in ambito lavorativo sono contenute in una serie di protocolli stipulati direttamente fra le parti sociali la cui osservanza è stata imposta a tutti i datori di lavoro.[1] Il rispetto di tali disposizioni, non azzera il rischio di contagio ma svolge una riduzione dello stesso, nei limiti in cui può essere richiesto che il datore di lavoro attivi la sua posizione di garanzia, impedendo che al soggetto possa essere mosso un rimprovero per colpa.

È ipotizzabile concludere pertanto (e salve ipotesi particolari) che i rischi penali correlati alle infezioni da coronavirus in ambito lavorativo siano contenuti.

Il caos informativo

Nel corso di tutta la crisi sanitaria vi è stato un susseguirsi di atti normativi emanati da una molteplicità di fonti (Parlamento, Governo, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri, Regioni, Enti Locali) che hanno creato un certo disorientamento nell’opinione pubblica. Caso emblematico è accaduto con l’art. 42, co. 2 DL 18/20205[2] (c.d. decreto Cura Italia) il quale, tra le altre cose, ha stabilito che l’infezione da Covid-19 contratta “in occasione di lavoro” costituisce infortunio sul lavoro e dà quindi diritto all’indennizzo INAIL.

Attorno a questo articolo si è sviluppato un intenso dibattito circa il pericolo che il riconoscimento come infortunio anziché come malattia dell’infezione da Covid-19 potesse fungere da riconoscimento implicito della ammissibilità della responsabilità penale del datore di lavoro per morte (art. 589 c.p.) o lesioni (art. 590 c.p.) dei propri dipendenti a causa del virus.

Da qui la pressante richiesta al legislatore di porre un rimedio, invocando uno scudo penale volto a tutelare da tali contestazioni gli imprenditori.

Lo scudo penale per i datori di lavoro e la sua effettiva utilità

Il legislatore, nonostante le precedenti argomentazioni, è in ogni caso intervenuto normativamente con questo testo (approvato dal Senato il 5 giugno 2020): “1. Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Dalle argomentazioni sopra esposte si comprende già come tale intervento non sia di alcuna utilità, in quanto il corretto assolvimento degli obblighi prevenzionistici esclude già la colpa e, quindi, la responsabilità penale del datore di lavoro. Per il resto trova applicazione in ogni caso la disciplina penalistica.

D’altronde sul punto era già intervenuto a chiarimento l’INAIL (il 15.05) con il commento: “L’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro ove l’INAIL specificava: “Il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa. In riferimento al dibattito in corso sui profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro per le infezioni da Covid-19 dei lavoratori per motivi professionali, è utile precisare che dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro.”

In ogni caso è bene evidenziare che le preoccupazioni, aldilà delle derive di mera propaganda, sono del tutto comprensibili e derivano da alcune distorsioni che la giurisprudenza in materia di responsabilità per violazioni della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ha avuto negli ultimi anni, distorsioni sulle quali sarebbe opportuno riflettere ed intervenire.

[1] In particolare, i Protocolli del 14 marzo e del 24 aprile 2020 sono stati recepiti nel D.P.C.M. del 26 aprile 2020, che ne ha imposto l’osservanza.

[2] Art. 42, co. 2 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante “Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019”. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.